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Lo sport e il patriottismo

Il patriottismo è un'infezione dalla quale non fui sempre immune. Quando l'Italia entrò in guerra, nel 1915, io stoltamente non mi trovai d'accordo sui "parecchio" di cui si sarebbe accontentato l'onorevole Giolitti; e se pure non partecipai ad agitazioni di piazza come tanti altri non pensai affatto ad alcuna forma più o meno lecita di mio imboscamento. Fu un errore? Non sono ancora riuscito a pentirmene del tutto. C'è però una forma di patriottismo, quello sportivo, che mi trova totalmente allergico. Si tratta evidentemente di una mia costituzionale deficienza e alcuni miei amici se ne rendono conto non senza farmi notare quanto più piena e completa sarebbe stata la mia vita qualora il brivido di un gol "nazionale" avesse mai scosso i miei precordi. Purtroppo nulla di simile è mai accaduto. Giorni fa, quando un certo personaggio apparve al video affermando che il calcio è cosa nostra, di noi tutti, dell'intera nazione, feci uno sforzo per sentirmi mutilato, alieno, moralmente spastico, affettivamente fermo allo stato zero, ma non ottenni alcun risultato. Si noti che io soffro di horror vacui e che una piazza affollata, un anfiteatro stracolmo mi danno meno preoccupazione della deserta (finché dura) e incantevole piazza Navona. Ciò nonostante non riesco a trovare alcun nesso tra una pedata al pallone, o agli stinchi di qualcuno, e il così detto orgoglio nazionale. Piedi e patria per me non sono omogenei: non si fondono.

So benissimo che i "ginnici ludi" (cfr. Arrigo Boito in non so quale suo libretto) hanno fatto salir la temperatura di interi popoli fin dalla più oscura preistoria. Conosco il detto mens sana ecc. Non mi dispiace assistere a qualche exploit atletico, guardo volentieri le corse dei cavalli, apprezzo il nuoto, io che so appena sguazzare per pochi minuti, e ho persino sognato di vincere una maratona. Ma qui mi fermo: penso che la caccia e la boxe appartengano alla macelleria, non allo sport; e quanto ai piedi, quand'entrano in ballo i piedi della nazione, della patria, i piedi della città, i piedi di seria A, B, C... Z, quando non provo sintomi di infarto per il calcio di rigore, quando non me la sento di odiare l'arbitro, l'allenatore, o qualsiasi altro caporione della baracca calcistica, quando mi accade di ravvisare nell'egregio collega Alfredo Pigna piuttosto la vittima di una follia collettiva che il mentore o l'aruspice delle nostre fortune calcistiche, allora debbo concludere che la calciomania (diffusa com'è in tutto il mondo) dev'essere il chiodo che scaccia un altro chiodo, un morbo che ne sostituisce un altro anche peggiore.

E infatti non mi sfugge che cosa c'è sotto le demenzialì manifestazioni di cui sto parlando. Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano. L'uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche caserme è un uomo condannato alla solitudine. Non gli mancano - fatte le debite eccezioni - i mezzi per sopravvivere e neppure i sempre più tiepidi affetti familiari. Gli manca invece la sintonia, il senso di esser legato agli altri uomini da un motivo qualsivoglia, magari modesto ma tale da riempire quasi automaticamente il suo vuoto. Di qui il grande e piccolo tifo. Al tifoso non interessa sapere che nessun italiano può correre i cento metri in dieci secondi. Ci sono riusciti tre negri, e che importa? Bel merito esser nati negri. Lo stadio invece offre partecipazione e non tanto per i suoi magri spettacoli quanto perché è l'aspetto visibile di una grande macchina che implica denaro a palate, scommesse, retroscena di ogni genere, ingaggi, disingaggi, uomini venduti a peso d'oro come merce preziosa. Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia. Scopo della vita è quello di "farcela". Gli artisti del piede ce l'hanno fatta, ecco il segreto dell'entusiasmo che destano. Di qui il carattere rissaiolo, vendicativo, nettamente antisportivo di un giuoco che è tanto più eccitante quanto meno è lucido, disinteressato. Ma...

Ma a questo punto sento la domanda di uno spazientito lettore: che cosa accadrebbe ogni domenica se non esistesse questo salasso, questo vescicante, questo quasi innocuo sfiatatoio che è la partita? Forse che si venderebbero più libri, si chiederebbe musica migliore di quella Canzonissima che è sfornata da un monopolio di Stato? Forse si affollerebbero le biblioteche (sempre chiuse), i giardini pubblici (inesistenti), i pestiferi e ameni dintorni delle nostre città? E non si può supporre che Lei, antitifoso incancrenito, soffra di egocentrismo, di sociofobia e di altri peggiori mali?



(Eugenio Montale, "32 variazioni"
in otto elzeviri del Corriere della Sera)