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L'artista secondo Montale
Una coscienza che resiste;
uno che nel mondo sa stare dentro e fuori


di R. Ceserani e L. De Federicis

Montale, il poeta che ha avuto tra i contemporanei ancor vivo una crescita di prestigio (e quindi di celebrazioni) quasi ingombrante, merita certo per la sua prolungata rappresentatività un'analisi molto attenta. L'autoraffigurazione del poeta è un tema della sua opera e ne accompagna l'evolversi lungo il corso di una vita intera; egli inoltre vi ha affiancato una successione abbastanza fitta, soprattutto dopo la fine del fascismo, di interventi critici relativi sia ad altri poeti italiani e stranieri (principalmente anglo-americani), sia agli attributi della poesia in genere e della propria in particolare. C'è dunque una sovrabbondanza di dichiarazioni da parte dell'autore, che tuttavia non illumina le zone allusive e concettualmente difficili del suo prodotto. Montale non si è rifiutato negli ultimi anni di rispondere alle domande dei suoi biografi e interpreti, e su alcuni dei componimenti che apparvero subito oscuri o addirittura indecifrabili ha acconsentito a dare spiegazioni, precisando le circostanze in cui nacquero e gli accenni che contengono a luoghi e incontri; si tratta di spiegazioni utilissime, che riguardano i dati esterni, referenzialí, del testo e che ne lasciano invece in ombra l'ampiezza ambigua dei significati, volutamente. Egli stesso infatti ha detto una volta, riferendosi ai componimenti della sua raccolta più discussa, Le occasioni, di aver fatto poesia pensando « a un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli, o meglio senza spiattellarli ». Insomma, Montale parla del poeta, e talora commenta se stesso, ma concedendosi un buon margine di arbitrarietà, riservandosi il diritto di tacere e forse di confondere l'interlocutore; la sua riflessione non vuole essere sistematica; egli cerca di sfuggire alle formule globali in cui spesso i critici tentano di costringere i poeti. Si tiene lontano dalle avanguardie, ma è indubbio che l'attenzione critica e autocritica, l'intreccio fra il poetare e le dichiarazioni programmatiche di poetica lo avvicinano a una delle tendenze più spiccate del Novecento; e la fiducia accordata alla poesia quale via di salvezza per l'uomo moderno dalla disperazione è un motivo che lo lega alle tematiche e agli orientamenti tipici del periodo fra le due guerre.
Dopo questa premessa diamo, con cautela, qualche indicazione complessiva che può rendere più semplice il primo avvicinamento ai testi.

- Vale la pena di tener presenti le messe a punto di Montale su poesia e moralità; fra le molte ricordiamo: che la poesia è soltanto uno dei modi, non l'unico, in cui può realizzarsi positivamente l'uomo (« La poesia, del resto, è una delle tante possibili positività della vita. Non credo che un poeta stia più in alto di un altr'uomo che veramente esista, che sia qualcuno » ); che il poeta non è obbligato all'impegno politico, bensì a quello morale, che fa tutt'uno anzi con la poesia stessa (« Perché allora è una presa di posizione verso l'umanità intera, verso il mondo. È la ricerca della ragione di vivere. Ma il poeta non se la propone nemmeno, altrimenti non è neppure un poeta »); che la più difficile delle virtù è la « decenza quotidiana ». La linea tematico-ideologica che si profila in questo tipo di osservazioni diverge nettamente da quella di D'Annunzio (al quale invece deve molto il linguaggio di Montale); la poesia non esprime l'artificio e l'eccezionalità, ma viene reintegrata invece in un rapporto con il reale e il comune.

- Dall'opera di Montale non ricaviamo una caratterizzazione sociologica del poeta. È Montale stesso che l'esclude, rimuovendo dalla propria area tematica le classi sociali e il loro conflitto. Non si intravede nelle sue poesie uno scenario simile a quelli in cui si muove l'artista dannunziano, l'eletto per sangue e per rarità di sentire (generalmente un patrizio) che si innalza sulle masse; né a quello descritto da Gozzano, dove l'alternativa è tra l'inutile poeta, destinato nella realtà e per metafora a una morte precoce, e la lunga vita operosa, ma senza fantasie e infine ugualmente insensata, del medio borghese. Con Montale siamo oltre, anche storicamente. Il mondo che indoviniamo nei suoi testi (attraverso gli ambienti, i richiami culturali, le figure di donne e di amici) è interamente quello dell'intellettuale borghese. Il rapporto conflittuale del poeta con gli altri non è però descritto su questo sfondo socialmente determinato, ma è posto in termini assoluti. L'antagonismo è (nel 1925, quando uscirono gli Ossi) tra lui e « l'uomo che se ne va sicuro / agli altri ed a se stesso amico, / e l'ombra sua non cura », tra lui e « gli uomini che non si voltano »: è un antagonismo che si presenta come esistenziale, una diversità che si dichiara rispetto agli uomini che non hanno inquíetudini e che tirano diritto.

- La poesia di Montale non è però evasiva. Anzi egli è uno dei pochi in Italia che ha fatto sentire la parola poetica in presenza e all'altezza dei grandi eventi. Quando nel suo primo libro propose un pessimismo radicale che vanificava l'adesione a qualsiasi mitologia politica (uscendo in dichiarazioni programmatiche come quella notissima dell'« osso » Non chiederci la parola: « Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo »), fu subito letto invece in senso antifascista, cioè in chiave politica. Più tardi egli ha accolto fra i suoi temi, in un modo peculiare, servendosi talora di oscuri disegni allegorici, le tragedie pubbliche e le paure collettive di un'epoca. Infine nelle ultime raccolte, scegliendo un linguaggio più discorsivo, è giunto anche alla battuta d'attualità e alIo scambio polemico, ironizzando su impegno e disimpegno, privato e pubblico, storia e poesia: «Dicono che la mia / sia una poesia d'inappartenenza» (da Xenia I, 14 in Satura).

- Che cos'è dunque il poeta secondo Montale e qual è il suo posto tra gli uomini? Dai testi viene una risposta a più sensi: è una coscienza critica, un isolato; non ha messaggi da portare, su di lui si può fare dell'ironia; non ha una funzione da svolgere, e tuttavia è necessario: «La poesia non è fatta per nessuno, / non per altri e nemmeno per chi la scrive. / Perché nasce? Non nasce affatto e dunque / non è mai nata. Sta come una pietra / o un granello di sabbia. Finirà / con tutto il resto» (da Asor, in diario del '71 e '72). Dalle asserzioni, in negativo magari ma solenni, delle prime e più note raccolte ai paradossi ironici delle ultime c'è una linea di continuità; Montale non rinuncia a presentare la poesia come un valore, una forma espressiva e di conoscenza quasi connaturata all'uomo. Si tratta, come è ovvio, del tipo d'uomo che è stato storicamente espresso dalla cultura del mondo occidentale e che si riconosce nella sua tradizione.

Le componenti culturali; la tecnica letteraria e i procedimentí espressivi.

Montale si inserisce in un contesto filosofico in cui la crisi del positivismo, e quindi della fiducia nel progresso necessario del sapere scientífico, si è già compiuta. Incomincia a scrivere quando le correnti di pensiero dominanti in Italia sono quelle del nuovo idealismo e dello storicismo (Gentile, Croce), di cui egli però non accoglie l'intenzione sistematica, che gli sembra rivolta a coprire (ancora in chiave positivistica, con un atto di fiducia nella razionalità del reale) le aporie e i fallimenti dei destini singoli e generali. Egli stesso raccontò poi di aver sentito l'influenza di Emile Boutroux, uno degli spiritualisti francesi che facevano appello alla «coscienza», in cui si manifesta la responsabilità dell'uomo, e alla «contingenza», che è sinonimo di libertà dal determinismo delle leggi naturali; e di essersi trovato, senza una vera consapevolezza, vicino agli esistenzialisti. A Montale resta estraneo il linguaggio della filosofia in senso tecnico; egli elabora però una coerente concezione del mondo su cui agiscono sia gli apporti speculativi che abbiamo ora segnalato sia le circostanze politiche che, negli anni Venti, favorivano il diffondersi nella borghesia liberale, e soprattutto fra i giovani, del senso di impotenza e di costrizione. La realtà gli si presenta come regolata da una legge necessaria in cui tuttavia il caso forse interrompe la catena di cause ed effetti; gli uomini sono costretti in un insieme finito di possibilità; d'altronde essi percepiscono soltanto frammenti di fenomeni, senza coglierne il senso; e nei fenomeni rilevano inspiegabili e rovinose disarmoníe: sofferenza non solo degli esseri coscienti, ma delle cose; si spera allora in un'eccezione, in una probabilità imprevista, non calcolata, che dia l'illusione della libertà. Montale non s'appoggia a nessuna religione positiva, rifiuta anzi qualsiasi sistema di certezze che siano esterne alla ricerca personale, spesso delusa, dell'individuo. Il suo pensiero è in ciò del tutto « laico », anche se non esclude una specie di confessata nostalgia del « sacro ». Uno dei suoi temi tipici è infatti quello della «salvezza» (non cedere alla disperazione? dare un significato all'esistenza?), che a volte sembra venire da figure di donna, quali compaiono nei testi più difficili da Le occasioni in poi; la speranza di salvarsi, in un universo così materialmente crudele, rimanda all'idea del soprannaturale, ma più ancora - e lo si vede via via nelle ultime raccolte - alla vita interiore, a quel tanto che in esistenze precarie la memoria può conservare.

Montale compone versi con caratteristiche inconfondibili: egli evita la psicologia e i sentimenti espliciti, esprimendosi invece mediante scelte di oggetti, gesti, figure; non parla per astrazioni, ma costruisce scene che evocano esperienze colte di volta in volta nella loro unicità e diversità, e ciò sempre con precisione estrema di linguaggio, con un lessico molto ampio che si estende dalla tradizione letteraria alle parole esatte della prosa e della tecnica; avvicina i fatti privati a quelli storici, i fatti storici a una condizione cosmica: nel breve giro di pochi versi talora accosta rapidamente i movimenti infimi della natura (vite di bruchi,o di lumache o di tarme) alle vicende degli uomini private o collettive (e così minimizza il valore della storia, la riduce a fatto di natura). Anch'egli, come tutti i poeti di maggior rilievo del Novecento, viene dal simbolismo e rappresenta la realtà fisica non naturalisticamente; un paesaggio che è simbolo, che è metafora dell'esistenza si vede soprattutto negli Ossi, da cui possiamo ricavare un vero sistema di oggetti che rimandano a significati esistenziali e che torneranno nelle raccolte più tarde: orto e muro (limitatezza, chiusura, opacità del non capire e dell'esser prigionieri), varco (passar oltre, salvarsi), mare (l'illimitato, la vita non del singolo ma in generale). In seguito il simbolismo di Montale si fa più complesso, talora si stacca dal paesaggio, diventa elaborazione concettuale più ardua, tende all'allegoria; compaiono oggetti che servono a caratterizzare allusivamente un personaggio, che fanno intravedere una vicenda; altre volte la loro scelta sembra gratuita, sembra echeggiare il non-senso della vita in genere (nel momento della catastrofe atomica sarà il portacipria a salvare la donna di Piccolo testamento? Non più, e non meno, di altre cose che sembrano di maggior valore). Per quest'uso degli oggetti, che sostituiscono gli stati d'animo e ne sono gli equivalenti, e per il modo di trattare come un «oggetto», autonomo quindi dalla soggettività dell'autore e dalla psicologia, il testo poetico, Montale si avvicina a T. S. Eliot e alla tecnica detta del «correlativo oggettivo». Con Eliot egli entrò in contatto nel 1928, quando una delle sue poesie, Arsenio (compresa poi nella seconda edizione degli Ossi), fu pubblicata sulla rivista «Criterion», nella versione inglese di M. Praz. Altri poeti di lingua inglese che Montale stesso ha segnalato come suoi punti di riferimento sono Gerard Manley Hopkins (1844-89), Robert Browning (1812-89), Thomas Hardy (1840-1928), William B. Yeats (1865-1939); tra i francesi Valéry (1871-1945), oltre a Baudelaire e a Mallarmé; tra i poeti italiani contemporanei Pascoli e i crepuscolari, oltre a D'Annunzio; tra quelli del passato Dante e Foscolo; con Leopardi c'è qualche evidente affìnità di pensiero e di tematica. Ma bisogna tener conto anche degli incontri con gli ambienti intellettuali: la Torino di Gobetti, con il quale egli incominciò una collaborazione subito interrotta dal fascismo; la Liguria, dove sentì l'influenza di almeno due poeti, Camillo Sbarbaro e lo statunitense Ezra Pound che viveva a Rapallo; Trieste, di cui conobbe la cultura attraverso Svevo e Bobi BazIen; Firenze, dove tra le due guerre si concentrava un'esperienza prevalentemente o esclusivamente letteraria; infine, dal dopoguerra in poi, Milano, che lo mise in rapporto attraverso l'attività giornalistica e i viaggi con quel mondo internazionale che fa da sfondo ai suoi ultimi libri.
   
Abbiamo già detto della straordinaria apertura del lessico montaliano. Al contrario, nella sintassi e nella metrica Montale tende a forme piuttosto chiuse: usa il verso libero, ma recupera anche con frequenza i versi della tradizione (endecasillabi, settenari, quinari), sia pur variandoli con calcolata irregolarità (spesso sono ipermetri) e distribuendoli in strutture costruite liberamente. Oltre che sullo strato ritmico, egli lavora molto sullo strato fonologico del testo, con risultati a volte persin troppo vistosi; introduce le rime, in fine di verso o interne, spesso giocando con quelle imperfette; quasi combina a volte due schemi metrici (l'uno, canonico, scandito dagli a capo in fine di verso, e l'altro interno ai versi, suggerito dalle rime al mezzo che formano a loro volta una linea ritmica; e tenta ogni possibile combinazione di suono. (Forse ha influito su di lui anche la cultura musicale, che è stato un altro dei suoi interessi). Ottiene i maggiori effetti dai contrasti: contrasti fra la ricchezza lessicale e le perentorie asserzioni in negativo (negli Ossi); tra una tematica che dà risalto all'incertezza e frammentarietà della conoscenza e le forme invece compatte. Ha un particolare «realismo», nel senso che le sue immagini rimandano per lo più a un dato esterno, a una realtà («lo parto sempre dal vero, non so inventare nulla» che passa però a un significato anche simbolico.


(Cesarini R. e L. De Federicis,
La società industriale avanzata:
conflitti sociali e differenze di cultura,
Torino, Loescher, 1986; pagg.1382)