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La poesia di Eusebio

Oggi l'opera di Eugenio Montale (1896-1981) viene affrontata in Italia e all'estero con strumenti critici tanto sottili da avvolgerla in un reticolo di studi sulle fonti, sulla metrica, sui processi elaborativi più specificamente formali alla ricerca delle sue profonde strutture letterarie. Oggi forse i giovani considerano la poesia montaliana con l'ossequio che si riserba ai classici; a noi, invece, piace riandare, almeno inizialmente, al ricordo dell'aspra, lucida ammonizione e della lezione morale che si levavano in anni difficili già dalla prima raccolta, Ossi di seppia (pubblicata nel 1925 nella Torino di Piero Gobetti) e che vennero confermate dalle Occasioni, uscite nel 1939 ancora a Torino presso l'editore Einaudi che aveva ereditato la tradizione antifascista piemontese.

La poesia montaliana apparve subito e continua ad apparire come stretta da una fredda morsa di delusione e tuttavia mossa e tesa verso una comunicazione col mondo e con le cose del mondo mediante un rigore espressivo e un linguaggio che serba segrete radici autobiografiche, del tutto nuovi nella nostra lirica del Novecento. Si è parlato e si parla dei suoi legami con la poesia di T.S. Eliot, di Guido Gozzano, di Giovanni Pascoli, di Gabriele D'Annunzio, ma certamente la cultura di Montale è stata sin dal suo esordio poetico tanto vasta e soprattutto tanto aristocraticamente assimilata e tanto paziente e prudente nell'atto del produrre, che la sua opera poetica sembra muoversi sempre in una raggiunta autonomia. Forse l'impressione è dovuta - ma non è poi tanto un'impressione, quanto un dato costante che risulta ad ogni lettura - dalla novità della sua lingua «che si liberava del superfluo letterario e della aulicità, per trovare la strada più diritta e più rapida tra l'oggetto e la parola» (Pozzi). Dapprima nel dettato più disteso degli Ossi di seppia, nel quale il paesaggio marino ligure e la presenza crudele della vita si confondono con un canto dove la parola domina netta, precisa, e solo il ritmo dei preponderanti endecasillabi dona vibrazioni musicali:

 

Pure, lo senti, nel gioco d'aride onde

che impigra in quest'ora di disagio

non buttiamo in un gorgo senza fondo

le nostre vite randage.

(Ossi di seppia: Non rifugiarti nell'ombra, vv. 13-16)

 

Noi non sappiamo quale sortiremo

domani, oscuro o lieto;

forse il nostro cammino

a non tócche radure ci addurrà

dove mormori eterna l'acqua di giovinezza;

o sarà forse un discendere

fino al vallo estremo,

nel buio, perso il ricordo del mattino.

Ancora terre straniere

forse ci accoglieranno: smarriremo

la memoria del sole, dalla mente

ci cadrà il tintinnare delle rime.

(Ossi di seppia: Noi non sappiamo quale sortiremo, vv. 1-12)

 

Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale

siccome i ciottoli che tu volvi,

mangiati dalla salsedine;

scheggia fuori del tempo, testimone

di una volontà fredda che non passa.

(Ossi di seppia: Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale, vv. 1-5)

 

II pessimismo montaliano tende a uno scioglimento, al raggiungimento di un dato di certezza. Al di 1à della contemplazione di un mondo che l'uomo - scaglia infinitesima, osso di seppia, rimasuglio, cioè, di un breve circolo vitale- appena arriva a conoscere per esserne travolto senza grandezza, sopravvivono energicamente i sentimenti. Essi promuovono un pessimismo attivo, un'esigenza di obiettività, una poetica dell'oggetto, un effetto di pulizia e di limpidezza dell'immagine che si risolvono in una sintassi più composta e più logica di quella ungarettiana, tutta presupposta e contratta. La ricchezza del lessico non è più pascoliana, volta, cioè, a moltiplicare all'infinito, nell'identificazione delle cose con il nome, le particole certe della natura, ma quella di un uomo inteso a decifrare, attraverso il linguaggio, il momento nascosto della vita, che non è eccezione se non a tratti, quando emerge alla coscienza. Una ricerca che negli Ossi di seppia si svolgeva nella luce e nell'ombra dei paesaggi liguri, nel riflesso d'essi dentro di noi, dentro il destino privato del poeta e che, dalla Casa dei doganieri in poi, sembra ritrarsi sempre più dentro la memoria, nel ricupero di sentimenti lontani, di pensose pene d'amore, di calori affettivi intensissimi che però affiorano per risparire nel gorgo della vita presente. Se questo dramma negli Ossi di seppia era espresso con maggior carica visiva, nella luce scattante della vegetazione mediterranea e negli spazi marini, nelle Occasioni si fa più intimo, più aspramente risentito, s'avvolge in più stretti simboli. Tuttavia nel momento medesimo in cui il linguaggio montaliano acquista in sicurezza, in fremiti nervosi che si concludono in :uminose e tragiche immagini, esso è anche testimonianza sempre più chiara di una vita, -eale o ideale, autobiografica o fantastica, non importa, intensamente vissuta: e i più bei canti d'amore della lirica contemporanea li ha scritti Eugenio Montale: gli addii, i rimpianti, e nostalgie, le angosce di una solitudine che non si rassegna.

Tutti i giovani poeti di quegli anni fra il 1930 e il 1940 avvertirono, più che quella di altri, la lezione di Eugenio Montale: oltre a un insegnamento stilistico di grande rigore che, alieno da concessioni retoriche, donava però impronta moderna ad una poesia concepita alla presenza dei classici, avvertirono un richiamo agli alti, assoluti valori della grande lirica passata, e un nuovo ritorno alla contemplazione della natura e della condizione dell'uomo in essa e nella storia. Il linguaggio di Montale non poteva, pur nella sua apparente oscurità, o meglio, nella sua segreta esplicazione, non risultare anche profondamente morale. Era il poeta del Novecento che, insieme con Umberto Saba, aveva più cose da dire, da dire poeticamente, da trasmettere come messaggio poetico, e quando uscirono Le occasioni la lirica di Montale apparve ancora più intensa, ancora più matura nella sua spoglia bellezza di canto doloroso, quasi disperato se, appunto, non sopravvivesse sempre, al di sopra della coscienza di un male che tutti ci avvolge e che ci fa solitari nella vita, la controllata gioia per il paesaggio e per i sentimenti consolatori che nascono - isole nel grande male del mondo - nelle sue atmosfere:

 

Il fuoco d'artifizio del maltempo

sarà murmure d'arnie a tarda sera.

La stanza ha travature

tarlate ed un sentore di meloni

penetra dall'assito. [...]

 

Ma il passo che risuona a lungo nell'oscuro

è di chi va solitario e altro non vede

che questo cadere di archi, di ombre e di pieghe.

(Le occasioni: Notizie dall'Amiata, vv. 1-5 e 26-28).

Nel 1943 uscì a Lugano Finisterre, quindici poesie scritte fra il 1940 e il 1942 e comprese poi nella raccolta La bufera e altro del 1956. La continuità, dunque, con le Occasioni è affermata dalle date, soltanto che, ormai, la poesia di Montale affronta gli anni tragici della guerra e la parola è tragica pur nella mantenuta felicità e ricchezza delle immagini e delle metafore e dei simboli. Ogni poesia, ora, ritorna al motivo della bufera, che è immagine raffigurante la guerra e la devastazione nel loro fragore assurdo sulla vita degli uomini e sui loro affetti. Così l'amore, che si vorrebbe fosse rifugio in tanta tregenda, anch'esso appare fragile riparo e anzi può apparire inadeguato quando l'uomo avverta il desiderio di una partecipazione più diretta alla difesa dal male. Sono liriche di altissima fattura e veramente esse consegnano, nelle diverse sezioni in cui sono distribuite, il senso della drammatica e complessa presenza di Eugenio Montale nella nostra civiltà letteraria. Anche quando i temi toccano dei dolori privati che colsero il poeta negli ultimi anni del conflitto e nel dopoguerra, le sue poesie non rinunciano mai a collegare, anzi a unire la sua sofferenza singola alla meditazione sulla sorte generale dell'uomo, come nei due Madrigali fiorentini, nella Ballata scritta in una clinica, o come Da una torre che è divenuta reale e insieme simbolico osservatorio dello strazio che ha colpito gli uomini frammezzo alla gentile indifferenza della natura.

Ossi di seppia, Occasioni, Finisterre, La bufera e altro erano titoli dei quali è evidente il significato nascosto e polemico. Così Satura, del 1971, vuole sottolineare un nuovo atteggiamento, sentenzioso e ironico, verso le cose e il mondo delle cose che si assiepano intorno all'uomo, soprattutto al poeta stesso, che allontanatosi dalla solitudine prediletta, dai suoi paesaggi marini, vive ora in mezzo ai ritmi affollati della vita cittadina. Ma anche Satura è una raccolta composita, divisa in due parti, di cui la prima, Xenia, contiene poesie datate fra il 1962 e il 1970 che prevalentemente si rivolgono al ricordo di una donna amata e scomparsa. Qui, nel grande pudore per un affetto inestinguibile, vi è ancora l'antico Montale, mentre nelle poesie più propriamente partecipi dell'allusione al titolo generale lo stile si semplifica, il tono si fa fievole, arguto, colloquiale, s'accosta alla lingua parlata. È un ultimo artificio per dimostrare l'ironica distanza che lo separa dal convulso mondo contemporaneo. Questa inclinazione riapparirà nel Quaderno di quattro anni (1977), dove le numerosissime poesie (centodieci) indicano come ormai, al limite della vita, raggiunta una serenità senza speranza («Poco filo mi resta»), Montale cercasse una nuova via lirica che fosse in qualche modo colloquio e comunicazione quasi quotidiana con gli uomini, con i lettori, quasi un estremo addio che si voglia prolungare il più possibile, senza tuttavia cadere nel patetico, con una certezza negativa che non conceda nulla al compromesso e all'illusione.



(Enrico Ghidetti, Sergio Romagnoli "'900" Sansoni Editore)