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Ossi di seppia

Ossi di seppia - il titolo allude alla condizione dell'uomo scaglia infinitesima, residuo di un breve e incomprensibile circolo vitale - appare a Torino nel 1925, editore Piero Gobetti; tra i primi a segnalare il nuovo poeta, Cecchi e Solmi, il quale scrive: «Questi "ossi" intendono essere le inutili macerie abbandonate lungo le spiagge aride, le morte memorie di ciò eh 'è stato solo una desolata velleità d'esistere». La seconda edizione aumentata esce presso un altro editore torinese tre anni più tardi, preceduta da un saggio di Alfredo Gargiulo; del '48 è la settima edizione che stabilisce definitivamente testo e struttura dell'opera. Inviando il libro da poco uscito al vecchio Svevo, della improvvisa fortuna del quale era stato uno degli artefici più alacri, il giovane Montale scrive: «Non si prenda premura di leggere i miei Ossi, che son anche di difficile digestione. Andrà col tempo spigolando [...] e mi scriverà qualcosa, severamente»; lo scrittore triestino, con molta franchezza, risponde a distanza di qualche mese: «lo attendo ansiosamente che dai versi Ella passi al modo più ragionevole di esprimersi. [...] lo credo che il suo destino si farebbe più facile. Infine non capisco perché chi in buona prosa sa analizzare uomini e cose quale critico, non voglia fare il critico della vita intera» e, qualche giorno dopo, ammettendo la sua scarsissima recettività alla poesia: «lo purtroppo non so avvicinarmi abbastanza a Lei e a Saba. Sono sordo. M'avvenne la stessa cosa con l'Eliot. In tutte le lingue! È una vera disperazione...».

Eppure gli Ossi di seppia sono uno dei libri fondamentali del '900 non soltanto italiano: «Il mondo di Ossi di seppia - scrive Gianfranco Contini - è un mondo negativo: secondo luoghi diventati proverbiali. il poeta si sofferma a descrivere 'il male di vivere' che ha incontrato, e non è in grado di dire al lettore che 'ciò che non siamo. ciò che non vogliamo', Eppure esso è vastamente descrittivo: il paesaggio arso, scabro e marino della Liguria [...] vi è composto in un ritratto ormai celebre; sennonché il risultato di questo affannoso sforzo descrittivo porta in luce 'le inutili macerie' dell'abisso marino, in altri termini non è remunerato da quel minimo di vitalità che inerisce anche all'operazione poetica, come appare luminosamente (e da lui è pure asserito in modo esplicito) nel maggiore dei poeti 'negativi', Giacomo Leopardi. Si aggiunga che la radicalità della posizione negativa di Mòntale è sottolineata dalla mancanza di qualsiasi ostentazione rivoluzionaria tanto nel linguaggio di cui è facilmente dimostrabile la continuità con la tradizione fino al Pascoli e al Gozzano, quanto nella metrica, che sia pure in forme non vincolate, libera frequentemente misure tradizionali e rime».

Gli Ossi di seppia nascono, dunque, al cospetto del natio paesaggio ligure - lo stesso poeta. presentando la sua opera in Svezia, ha ricordato la «bellezza scarna, scabra, qflucinante» della sua terra, aggiungendo: «Per istinto io tentai un verso che aderisse ad ogni fibra di quel suolo» - su di un terreno fecondato dalle esperienze più alte e complesse della poesia italiana ed europea fra '800 e '900 (in particolare la 'linea ligure' di Roccatagliata Ceccardi. Sbarbaro, Boine). «Psicologicamente e ideologica mente - ha scritto il Mengaldo - gli Ossi sono dominati da una volontà di negazione [...] e di iperterrito confronto con la 'necessità' che ci stringe, la quale si vuole stoica ed ascetica: su posizioni filosofiche che certo partono dal contingentismo di Boutroux ma che non è azzardato definire pre-esistenzialistiche, e nelle quali si riflette anche, rovesciata in superbo auto-isolamento, l'emarginazione della buona borghesia liberale da parte di una società che stava per divenire fascista; ed ecco allora i motivi del 'male di vivere', dell'indifferenza e atonia vitale, del 'delirio d'immobilità', della passività e automatismo dell'io (già in parte sbarbariani). 'Sono un albero bruciato dallo scirocco anzi tempo' scrive Montale a Svevo nel '26, con formulazione commoventemente vicina a quella di Leopardi agli amici toscani: e Leopardi è già e resterà, fuori di ogni recupero grammaticale e rondesco, ma per assimilazione intima, una delle sue bussole decisive». A questa novità di contenuti corrisponde un sostanziale «conservatorismo formale», «in uno spontaneo accordo con la tradizione che si lascia alle spalle ogni tentazione avanguardistica, mirando a sistemare la novità etica e psicologica in un quadro di forme autorizzate [...]. Ne fa fede il linguaggio che molto deve a Pascoli e ancor più forse a D'Annunzio, ed è intensamente legato alla tradizione ligure [...] e più in generale al vocianesimo, giusta una marcata tendenza all'espressionismo stilistico che, entro la tradizione più remota, lo connetterà sempre piuttosto a Dante che a Petrarca (in antitesi alla linea Ungaretti-ermetismo)>>.

Che cosa significò la poesia di Montale per le giovani generazioni nel periodo fra le dùe guerre? Così risponde Carlo Salinari (critico letterario, ma anche pratagonista di primo piano della Resistenza): «Nella situazione storica del fàscismo e del progressivo addensarsi delle nubi della seconda grande tragedia mondiale, la disperazione di Montale ci appariva congeniale, senza mai presentarsi come una forma di evasione dalla realtà che ci circondava e dalle responsabilità che essa ci imponeva. La sua poesia dava voce alla nostra profonda infelicità, ma ci ammoniva a guardarla in faccia con coraggio e a non sperare consolazioni [...]. Per questo noi, accanto alla funzione antiletteraria della poesia di Montale, apprezzavamo il suo valore di poesia-testimonianza, di poesia, cioè, che aveva bandito ogni elemento di liberazione e di sfogo, che non voleva più avere una funzione di confessione o di commento a determinati stati d'animo, ma era sempre la narrazione diretta e precisa di un documento di vita». .

E ancora a proposito dell'eccezionale influsso esercitato da Montale sui contemporanei (anche su poeti di lui più anziani come Saba e Ungaretti) è testimonianza significativa, fra tante, questo passo tratto dal romanzo di Vasco Pratolini Allegoria e derisione (1966) - un dialogo tra il protagonista e una donna nella Firenze del 1935 : «Non puoi conoscerlo, è uno di 'Solaria' mentre la tua educazione è spaventosamente vociana. Sei irrecuperabile, ho paura. Legato a dei conformismi anche se il più delle volte corrispondono a verità, trattandosi di autentici poeti. Ma lui, Montale,io non so come sia fatto, certamente è bellissimo e triste e arguto come Foscolo come Puskin e come Leopardi messi insieme. Non dà risposte, capisci? Nella sua poesia non c'è né Dio né angelicità né tragedia né maledizione, oppure c'è tutto di tutto questo se vuoi, pone delle ipotesi, degli interrogativi ma non è concettoso. La sua forza consiste nel dire 'non così non così ', un modo di rifiutare che comprende ogni cosa per cui ogni cosa diventa preziosa. L'eroe per lui è morto, lui scava, ossia ti presenta la vena, sta a te scavare. E sotto i gesti che lui delinea scoprire i sentimenti, sotto i sentimenti le ragioni, sotto le ragioni ancora il dubbio».



(Da "'900", a cura di Enrico Ghidetti
e Sergio Romagnoli, Sansoni Editore)