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La produzione letteraria

A differenza di quanto accadde per Ungaretti, cosmopolita per necessità biografiche e tutto proteso verso la cultura francese, l'apprendistato letterario di Eugenio Montale si svolse in modo molto più appartato e "provinciale": autodidatta, appassionato lettore di Dante, assiduo frequentatore di piccole biblioteche genovesi in cui poteva reperire soprattutto gli autori liguri, oltre naturalmente ai classici della tradizione italiana, il poeta si accampò fin dai primi versi in un territorio lirico tutto suo, in cui le suggestioni di Dante, Leopardi, Pascoli, D'Annunzio - ma anche, e in proporzioni non secondarie, dei liguri Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e Camillo Sbarbaro - rappresentavano un quadro di riferimento del tutto autonomo, sia dal punto di vista stilistico che da quello tematico. Se prendiamo a esempio una delle prime e più celebri poesie di Montale, Meriggiare pallido e assorto, del 1916, vi incontriamo diversi calchi lessicali danteschi e dannunziani; e tuttavia il ritmo particolarissimo di una versificazione che osa accoppiare misure eterogenee come il novenario e doppio quinario, il gioco inaudito di rime e assonanze consonantiche dell'ultima strofe, la scabra qualità delle immagini ("rovente muro d'orto", "crepe del suolo", "calvi picchi") conferiscono al dettato poetico un timbro di grande originalità, capace di riplasmare e dislocare verso altri orizzonti comunicativi anche i più diretti contributi della tradizione.
L'esordio di Ossi di seppia (1925) presenta insomma una cifra poetica già perfettamente matura e inconfondibile, non dipendente da alcuna scuola, e libro strettamente connessa a una visione del mondo negativa che considera l'esistenza dell'individuo una sorta di soffocante carcere chiuso da "muri", da "reti", da "catene", che impediscono di coglierne il senso più' profondo e autentico. Compito della poesia sarebbe proprio quello di individuare "l'anello che non tiene", "la maglia rotta nella rete", per fuggire oltre, scavalcare la "muraglia" e attingere finalmente a qualche frammento di verità", che di tanto in tanto si lascia intravedere, magari attraverso un oggetto qualunque, o un barbaglio di luce, o l'arrivo di un temporale: tutti fantasmi che per un attimo sembrano annunciare una salvezza, una soluzione di continuità nell'esistenza. Ma l'individuo non ha la forza né la prontezza per afferrare quell'attimo salvifico: tenuto fermo da "viscide radici", non può che praticare l'estraneità e l'immobilità, riconoscendo la negatività della propria natura ("noi, della razza /di chi rimane a terra") e dismettendo ogni speranza di mutamento ("E l'ora che si salva solo la barca in panna").

La poesia degli Ossi di seppia si muove così tra effimere illuminazioni e cupi fallimenti, ed è affidata di preferenza a oggetti che acquistano in tal modo un forte rilievo simbolico: oggetti quali le leggerissime cartilagini che danno il titolo alla raccolta, dilavate dall'acqua marina e disseccate dal sole, allusive di una condizione esistenziale condannata a esprimersi attraverso "qualche storta sillaba e secca come un ramo" e capace soltanto di pronunciarsi su "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". A questi oggetti si contrappongono, labili, cangianti e appena avvertibili, i fantasmi: la "folata che alzò l'amaro aroma I del mare", il "falco alto levato", "l'albero di nuvole", "il ritornello / di castagnette", il "fischio del rimorchiatore"; tutte presenze istantanee, destinate a bruciare in un attimo il loro potenziale di salvezza e la loro carica di verità profonda.

E tale connaturata simbolicità dell'oggetto relega in un ruolo defilato e periferico l'io poetico. E proprio tale marginalità induce Montale a "torcere il collo all'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica": non si tratta di un rifiuto globale della tradizione dei "poeti laureati", tradizione che del resto nutre abbondantemente il lessico della sua poesia, quanto di uno spostamento di prospettiva: il soggetto, non essendo più' in primo piano, rinuncia a ogni eloquenza amplificatrice e narcisistica, e sceglie di dare rilievo, con un dettato secco e asciutto, agli oggetti, i quali divengono simboli sia della condizione del soggetto stesso, sia del mondo esterno.

La concezione del mondo e della poesia finora esposta, che trova negli della poetica Ossi di seppia una prima grande concretizzazione espressiva, rimane più o meno stabile nella produzione successiva, pur arricchendosi e variamente sfaccettandosi nel corso del tempo. Le poesie de Le occasioni (1939) paiono scaturire da una più' precisa formulazione di poetica, che più tardi Montale riassumerà nel rapporto tra "opera-oggetto" e "occasione-spinta": "ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta"; una posizione questa molto simile alla teoria del "correlativo-oggettivo" formulata nel 1919 da Thomas Stearns Eliot e che rafforzava il già consistente spessore simbolico della prassi poetica montaliana. Anche dal punto di vista della visione del mondo, Le occasioni costituiscono il coerente sviluppo dei nodi centrali degli Ossi di seppia. Nelle poesie aggiunte alla seconda edizione degli Ossi (1928), da Arsenio a Delta, Montale aveva quasi toccato con mano il fallimento della speranza di salvezza affidata alle capacità epifaniche degli oggetti: giunto sul punto della rivelazione, Arsenio viene di nuovo inghiottito dall'"onda antica" della vita di sempre e s'intuisce che mai più un "ritornello di castagnette" giungerà a strapparlo dal "troppo noto delirio... d'immobilità". Privati della loro capacità rivelatrice, gli oggetti si trasformano allora in amuleti, come il "topo bianco, d'avorio" di Dora Markus: capaci ancora di significare qualcosa di ulteriore, ma solo in relazione alle memorie e al vissuto del soggetto e dunque in definitiva semplicemente consolatori, protettivi di un'identità labile e disperata proprio perché priva di qualsiasi altro mezzo di autoriconoscimento. La salvezza diviene cosi una dimensione ancor più lontana e astratta, incarnata non più in possibili e vicini fantasmi, ma nella visita di una distante natura angelica, identificata nel personaggio di Clizia. La storia d'amore con Irma Brandeis, fatta soprattutto di lunghe lontananze, viene sublimata con slancio allegorico dal poeta ed elevata a eterno conflitto a condanna del mondo e redenzione, in un quadro di religiosità laica che troverà ne La bufera la sua più compiuta espressione. Ma già nelle Occasioni, in particolare nella sezione intitolata "Mottetti" il mito salvifico della Donna Assente cui si riserva il culto dell'Attesa appare robustamente strutturato. quanto più lontana e labile è la luce della salvezza, quanto più incerto e proditorio il suo avvento - e comunque certamente non definitivo: Clizia arriva per sempre ripartire - tanto più cupo e buio risulta il mondo preda degli orrori della storia: un mondo in cui non si offrono più varchi e in cui la stessa memoria individuale, custode dell'identità, si perde dietro una "bussola impazzita" (La casa dei doganieri).

E infatti l'irrompere distruttore della storia diventa il tema privilegiato di Finisterre (1943-45), che diverrà la prima sezione de La bufera e altro (1956) e in cui l'opposizione Clizia-mondo si polarizza in due entità inconciliabili: Clizia è ormai scomparsa "per entrare nel buio" (la relazione tra Montale e Brandeis fini appunto nel 1939) e il mondo è sconvolto dalla "bufera" della seconda guerra mondiale, in una macabra sinfonia di devastazione che non risparmierebbe neanche l'angelo visitatore, semmai tornasse (Giorno e e notte). La possibile salvezza acquista così nel resto della raccolta una sostanza sempre più metafisica e impalpabile, e la poesia che a quella salvezza per sua natura tende si riduce a una tenue "iride", a una "traccia madreperlacea di lumaca o smeriglio di vetro calpestato" (Piccolo testamento). Non resta, in questo mondo privato dell'attesa angelica, che l'"enorme presenza dei morti " (Ballata scritta in una clinica), l'imprescrittibile realtà di ciò che non è più e che dal nulla impone a chi ancora sopravvive di cancellare anche la memoria: "... Memoria / non è peccato fin che giova. / Dopo è letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé " (Voce giunta con le folaghe). La storia stessa, del resto, la storia dell'intero genere umano, può esistere soltanto come negazione di sé, come accumulo di non essere, come definitiva assenza dell'uomo da se stesso: "ma una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l'estinzione" (Piccolo testamento). Tale concezione radicalmente negativa della storia, che è comunque - come abbiamo cercato di dimostrare - un coerente sviluppo dell'altrettanto
negativa concezione dell'esistenza dominante negli Ossi di seppia, assume in Satura (1971) un rilievo di primo piano. Se le prime tre raccolte di Montale sono tutte ricollegabili, sia pure con modalità di volta in volta diverse, alla poetica dell'«occasione-spinta» taciuta e dell'«opera-oggetto» espressa, in questa quarta, Montale - giunto ne La bufera e altro all'estrema rarefazione di quella poetica, al punto che spesso il simbolo vi si converte in allegoria - sembra voler coscientemente cambiare registro (a proposito di Satura il poeta dichiarò in un'intervista del 1975: «Ho scritto un solo libro, di cui prima ho dato il recto, ora do il verso»). E in effetti ora le «occasioni» provenienti dalla realtà sono esplicitamente dichiarate e nominate, con un taglio ferocemente ironico e nichilistico che smantella metodicamente tutti i miti politici, ideologici, culturali e artistici degli anni Sessanta: definitivamente archiviata l'idea di «salvezza», resta la dannazione di un mondo neanche più nobilitato dal ruolo di vittima di un'apocalisse storica prossima ventura (quell'incubo atomico che agiva potentemente sull'immaginario del poeta ne La bufera e altro e che negli anni Sessanta si andava decantando grazie alla politica del disgelo fra Usa e Urss), affogato nella banalità di false ideologie e false fedi, anestetizzato dal consumismo e dal conformismo.
Montale con MoscaSuperati i settant'anni, Montale si scopre poeta satirico e «arrabbiato», aggiungendo una corda imprevista alla sua già vastissima gamma tonale, ma rimanendo comunque coerente con le coordinate generali di una visione del mondo già elaborata negli anni Venti. Non bisogna dimenticare, d'altra parte, che questo nuovo scontro diretto con la realtà è preceduto dagli Xenia (1966-1970), pubblicati a più riprese in varie edizioni non venali e poi divenuti la prima parte di Satura. Dedicati alla memoria della moglie, morta nel 1963, gli Xenia ristabiliscono comunque nell'immaginario del poeta un rapporto positivo con i ricordi privati e col dolore, rimpianto e nostalgia cui essi danno origine. I toni neocrepuscolari di questo piccolo canzoniere d'amore sono la prima spia di un rinnovato Il tuffo di Esterinarapporto con la realtà, mediato dalla morte e forse proprio per questo capace di coinvolgere le zone più segrete della sensibilità del poeta. E una volta riconquistato quel rapporto, finora circoscritto alla sua attività giornalistica, quella stessa sensibilità si ritrova libera di esprimersi a tutto tondo, sfogando malumori e idiosincrasie ma al tempo stesso recuperando la dimensione dell'intervento nella realtà: quella dimensione cui in fondo l'uomo Montale aveva sempre aspirato, fin da quando lui, «della razza / di chi rimane a terra», invidiava il meraviglioso tuffo di Esterina (Falsetto).

Molti interpreti hanno ravvisato in Satura uno stile «diaristico», giustificato dallo stretto rapporto con l'oggi che giorno per giorno si andava dipanando. E in effetti alla forma del diario si rifanno le ultime due raccolte. Montale, Diario del '71 e del '72. (1973) e Quaderno di quattro anni (1977) che continuano la maniera di Satura e che certo non raggiungono il livello delle prime quattro pur rivelando qua e là degli spunti degni della migliore sua produzione: una produzione che risulta nel suo complesso di fondamentale importanza per la fisionomia del nostro Novecento, e che fa Eugenio Montale una delle voci poetiche più alte e risolte dell'intera letteratura italiana.


(V.De Caprio- S.Giovanardi
I testi della Letteratura Italiana,
Il Novecento - ed. Einaudi)