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La poesia di Montale: il destino della poesia
di Marianna Inserra

Il libro Scrittori negli anni terminava con un lungo saggio, La poesia di Montale, scritto nel 1957 , in cui Solmi esaminava con maggiore chiarezza l'evoluzione della poesia montaliana da gli Ossi di seppia fino a La bufera e altro (Neri Pozza, Venezia 1956). Questo studio solmiano è riconosciuto all'unanimità come prodotto di una splendida maturità critica, che ha raggiunto una coerenza e un equilibrio rari. Ettore Bonora, nella recensione al primo tomo de La letteratura italiana contemporanea curata da Pacchiano, ripercorre brevemente i saggi più significativi del Nostro a partire dal difficile periodo fascista e definisce senza mezzi termini lo studio montaliano del 1957 " il capolavoro di Solmi contemporaneista" .Solmi - spiega Bonora - dimostrò sin dall'inizio di Scrittori negli anni, una coerenza, una misura rare: "Non ci furono conversioni in Solmi. Non cambiò il registro stilistico, come avvenne a coloro che anche come critici avevano ceduto alla maniera ermetizzante; non subì l'influenza dei metodi nuovi, come chi fa concessioni alle mode. Il suo fu uno svolgimento naturale, coerente, sorretto da un'idea ben precisa dell'ambito nel quale doveva esercitarsi il suo lavoro di critico e storico della letteratura" . Il saggio La poesia di Montale si apre con una frase lapidaria, ma commovente e ricca di significato: "A poche cose ha creduto la nostra giovinezza: ma, fra quelle poche, certamente alla poesia" in cui è raccolto tutto l'amore, tutta la fiducia che il nostro critico - come abbiamo visto nel capitolo precedente - nutriva per la poesia considerata come parte integrante dell'uomo. Prima di analizzare l'opera di Montale, Solmi, con partecipazione viva e trepidante, ci offre un quadro, forse unico, in cui delinea lo stato d'animo di un'intera generazione di giovani sacrificati alla guerra, nel fiore dell'età ed esposti ad una vertiginosa solitudine. Il dramma da lui raccontato è quello della generazione di quei giovani che, nati verso la fine del secolo, "Nella sua assenza di elaborati motivi ideali e storici, nella sua bramosia di azione immediata, finì col fornire la più cospicua massa di manovra al nascente fascismo e allàmarcia su Romà" . Una gioventù che doveva ancora aprirsi al mondo quando venne sconvolta dalla bruciante esperienza bellica che - spiega Solmi - venne accettata come se fosse stata un evento inevitabile, una dura prova per diventare uomini. Il critico, sostenuto dall'obiettività garantita dalla distanza temporale, espone in sintesi lo stato d'animo di quella generazione, perché esso costituisce il terreno in cui Montale ha coltivato il fiore della sua poesia. Il poeta genovese, con gli Ossi di seppia e la loro atonia vitale e disperazione metafisica, costituisce il riflesso di quella "spiritualità latente" che aveva bisogno di una voce sincera per esprimersi. Solmi, analizzando quello stato d'animo in lotta contro le ipocrisie vecchie e nuove, giustifica così il bisogno, allora avvertito, di cercare la sincerità, la nuda realtà , "lo scavo all'osso, il brulichio irresistibilmente fermentante della spontaneità" . Quello che alcuni critici etichettarono sbrigativamente col nome di "decadentismo" per indicare un vuoto edonismo e un totale disimpegno, in realtà significò ben altro per questi giovani: "la ricerca di una spiegazione elementare di sé e del mondo, . un bisogno di rivelare la vita" .

Questo concetto verrà ribadito da Solmi nel 1976 in un suo scritto in occasione degli ottant'anni di Montale . Ormai anziano, il nostro critico, in quell'occasione ricorda il lontano autunno del 1917, a Parma, dove, grazie all'amico Francesco Meriano, incontrò in una piccola latteria in cui si raccoglievano alcuni suoi amici amanti della poesia, il futuro autore di Ossi di seppia: da quel momento più volte il nostro critico ebbe modo di apprezzare Meriggiare pallido e assorto, il cui significato risultò più chiaro e profondo al termine della guerra, quando l'icubo era terminato, ma aveva lasciato le sue indelebili tracce. L'anziano Solmi non dimentica che all'apparire del primo libretto montaliano molti critici intervennero ed analizzarono, seppur magistralmente, " gli elementi fonici e immaginativi" , ma non riuscirono a cogliere l'elemento "sintomatico", il carattere più profondo della sua poesia. Il Nostro cita come caso esemplare, l'intervento di Pietro Pancrazi che, nello scritto Montale poeta fisico e metafisico (1934), aveva accentuato troppo l'elemento fisico in Montale a svantaggio del secondo, addirittura lo aveva chiamato "padre dei poeti della doglia sismica" , a giudicare dall'attenta analisi del mondo condotta dal poeta genovese con la stessa "serietà logica con cui si controllano le linee di un planisferio". In realtà - spiega Solmi - Pancrazi è uno di quei critici vissuti "prima della frattura" e di conseguenza non poteva capire la portata di una lirica, come quella montaliana, cosciente della crisi verificatasi fra il mondo e la poesia. Ritornando al saggio montaliano del '57, Solmi ribadisce che proprio quel terreno, bellico e postbellico, e non altro, costituisce la base della poesia montaliana: certamente - ammette il critico - vi sono echi naturalistici carducciani, pascoliani e dannunziani, ma tra la tradizione degli ultimi grandi dell'Ottocento e Montale c'è questa frattura storica, provocata dalla guerra che ha frantumato le vecchie sicurezze e i precedenti equilibri.

Solmi e MontaleÈ nei contemporanei che bisogna cercare i rapporti con Montale, come ribadirà due anni dopo parlando delle origini della poesia di Corazzini, un altro saggio "programmatico" per usare il termine di Pacchiano insieme a quello dedicato alla poesia di Montale, in cui il nostro critico, non limitandosi ad esaminare soltanto l'autore e la sua opera, ma anche il problema storico che accompagna la formazione della poesia del Novecento, affermerà che " Le origini di Corazzini sono tutte, e integralmente, contemporanee: com'è sempre, d'altronde, e nonostante le apparenze in contrario, per i veri poeti". Come aveva già fatto nel 1926, Solmi anche adesso, nel 1957, sostiene l'originalità di Montale rispetto agli altri poeti suoi conterranei, dai quali (abbiamo già visto nel primo capitolo) ha ereditato alcuni particolari nella definizione paesaggistica: la sua poesia, pur avendo molti richiami alla tradizione letteraria, nacque sul terreno "di radicale modernità" indicato così profondamente da Solmi, il quale precisò che: "Certo, questi cavillosi riferimenti, che si offrono a puro scopo esemplificativo, non hanno, evidentemente, molta importanza ai fini dell'intendimento critico, di fronte a un'opera che, come
quella di Montale, ci si offerse già cresciuta su se stessa e in possesso dei propri inconfondibili strumenti" . Ricordando la prefazione gargiuliana agli Ossi, in cui si parlava di "corrosione critica dell'esistenza" e di "negazione" come base della poesia montaliana, Solmi ritorna alle sue precedenti posizioni sviluppandole ulteriormente. In realtà - sostiene il Nostro - la corrosione critica dell'esistenza è un tema ricorrente nella poesia di ogni tempo e ne è parte costitutiva. In Montale questo questo tema di corrosione critica esistenziale sorge nel clima "arido" della guerra che ha distrutto non solo vite umane, ma gli ideali tradizionali, la fiducia nel mondo. In particolare, il nostro critico, facendo un paragone col poeta a lui tanto caro, Giacomo Leopardi, scrive: "Come il pessimismo leopardiano, nella sua peculiare accentuazione, sia pure contraddittoriamente, romantica, sorge all'ombra d'una determinata crisi storica, così la poesiànegativà di Montale nasce
anch'essa da una situazione che in lui - e in altri - , nei modi trasposti della poesia, cerca di darsi una voce". Montale non fa della negazione la sua poesia, anzi - e qui sembra che Solmi voglia indicare un altro paradosso della lirica moderna come quello spiegato nella prefazione a Erato e Apollion (Milano 1936) - nella negazione è contenuta una affermazione, un messaggio, un tentativo di colloquio con gli altri, infatti il Nostro scrive: "L'esperienza della poesia moderna è stata quella di esprimere una tale estrema affermazione dal seno stesso della negatività totale.". Quella di Montale è una poesia che pur partendo dall'amara constatazione, dall'indifferenza, dal male di vivere, lascia lievitare qualcosa al di là delle cose, un'illusione, un barlume, una speranza. Prendendo ancora una volta posizione contro Gargiulo, Solmi sostiene che non si può parlare di "aspro e contorto residuo documentale", ma, come aveva detto qualche anno prima nella recensione a Le Occasioni, solo di graduazione di intensità. Quanto alle "esigenze foniche e ritmiche" del lettore che Gargiulo ritiene trascurate dalla poesia degli Ossi, vengono tralasciate - spiega Solmi - anche dalla musica moderna, dal momento che la dissonanza stessa ne è divenuta elemento costitutivo. Questo bisogno di essenzialità, di genuinità - abbiamo detto - era già stato sottolineato nel 1936, nella prefazione ad Erato e Apollion di Salvatore Quasimodo. In quello scritto Solmi, effettuando com'è solito uno scavo profondo alle origini della poesia quasimodea, evidenziava l'esigenza di purezza della nuova lirica, privata degli abbellimenti retorici e, insieme, una progressiva diminuzione dei temi della lirica tradizionale, per diventare voce, eco della solitudine dell'uomo, in un mondo maledettamente vuoto. Eppure, nonostante la caduta di tutti i sogni, il poeta "Trova in questo suo duro e necessario riconoscimento, un paradossale principio di musica e di dimenticanza.
La favola risorge sul mondo distrutto come un miraggio sul deserto". Questo "paradosso" accomuna poeti come Saba, Ungaretti, Montale e lo stesso Quasimodo, i quali, pur nell'originalità del loro canto, accolgono "consapevolmente e rassegnatamente il suo (della poesia) destino espressivo". In particolare Quasimodo, nella sua poesia, canta la nostalgia di un Eden perduto, di un mondo non corrotto dell'infanzia, di un paradiso di beatitudine: tema - fa notare Solmi - ricorrente in tutta la poesia moderna, a partire da Leopardi e Baudelaire e che ritorna nella lirica montaliana a cui Quasimodo si connette direttamente "Per quel disperato senso di decadimento e di destino segnato, che balena nelle luci e nei colori delle apparenze evocate".

Ritornando al saggio su Montale del '57, Solmi nota che nel passaggio da Le Occasioni a La bufera (anche se le ultime liriche anticipavano la prima parte del nuovo) si verifica un ulteriore cambiamento nella poesia montaliana, ma si tratta di una evoluzione necessaria, perché - come spesso il critico ricorda - la poesia obbedisce alla necessità di un destino. Si parla di necessità: Solmi, nel delineare la poesia de La bufera, spiega che Montale, consapevole di questo destino, ha bisogno di far passare la sua poesia "Attraverso le mute lettere di un alfabeto perdutamente interiore per dirci una parola che possiamo sentire profondamente
nostra, che venga incontro ai nostri interrogativi". Di conseguenza, il nuovo libro risulta essere particolarmente più oscuro degli altri due. Solmi, in questo lungo saggio, si sofferma sui due elementi che caratterizzano in modo significativo la poesia de La bufera: l'elemento femminile e quello "religioso". Il "tu", l'altra persona del dialogo ritorna nella poesia del terzo libro, ma "con voluto e significativo equivoco" : nella precedente poesia degli Ossi, l'"altro" era facilmente identificabile, ne Le Occasioni la persona cui è rivolta questo "tu" o più semplicemente Gerti, Dora Markus e Liuba, costituivano una sorta di "punto di intersezione tra incontro mondano e la leggenda intima" . Nei Mottetti, però, che proseguono la poesia degli Ossi brevi, Solmi scorge una metamorfosi della figura femminile che diviene sempre più evanescente, più vaga e indeterminata e al tempo stesso più misteriosa ed enigmatica ( si pensi, ad esempio, alla figura femminile di Nuove stanze, non si sa se maga o metafora metafisica). Questa metamorfosi della donna continua nella poesia de La bufera e diventa più complessa, si carica di significati in sintonia con quella che è la storia personale del poeta.

Solmi scrive infatti: " Così, dopo l'universalismo nativo, elementare degli Ossi di seppia , con la Bufera (.), Montale si affaccia ad un nuovo universalismo, paradossalmente ricavato dalle linee della più sepolta, irripetibile esperienza vitale". La poesia di Montale parte da una radicale modernità legata al clima di crisi di valori della sua epoca e da un'irripetibile esperienza personale, ma poggia su una determinata tradizione, in questo caso, il Nostro nota una particolare curvatura "petrarchesca" e "surrealista" nella poesia del terzo libro. Inoltre, ne La bufera si dischiude una intima nervatura religiosa che, nella prima fase della poesia montaliana, si rivelava nella disperata ricerca di un varco, dell'"anello che non tiene" per sfuggire all'atonia e ne Le Occasioni si esprimeva nei simboli, nelle "favole naturali", seppur fuggevoli, di una vita integrale ed ora, nella più complessa poesia de La bufera, il poeta non cerca più la via di scampo, non teme più la solitudine, perché "Sorgono d'improvviso sul suo cammino figure delicatamente enigmatiche, mediatrici con l'ineffabile". Queste leggere figure, od ombre, sembrano indicare al poeta che dietro alle "cose", alle apparenze, si cela qualcosa di miracolosamente più profondo: l'Altro (o l'Altrove), qualcosa che sta "al di là". Queste enigmatiche figure, talora di morti che nel nuovo libro non sono più "larve rimorse dai ricordi umani" , bensì riposano in un "eliso/folto d'anime e voci" , sembrano consolare il poeta. La vena religiosa si esprime anche tramite figure femminili che sembrano incarnare la "donna ideale" e per questo Solmi insiste sul "classicismo paradossale" della poesia montaliana: pur essendo radicalmente moderna, essa richiama la tradizione stilnovista e petrarchesca. Queste figure femminili, assolutamente vaghe ed indeterminate incarnano, forse, il sentimento stesso del poeta, una metafora profonda della sua intimità.

Ma la poesia montaliana - precisa Solmi - non approderà mai come quella eliotiana a meditazioni metafisiche e alla contemplazione dell'Eternità, perché il poeta è sempre figlio di un'epoca che, provata da sofferenze e distruzioni, non è capace di facili fedi.