Mazes

 
 L'onda
 Buonanotte
 La poltrona
























L'onda

Quieta e silenziosa nasceva. Scura, cupa, lì a centinaia di chilometri dalla morte, lontana da quel punto che decideva la sua fine. Silenziosa goccia dopo goccia cresceva. Ad ogni zampillo sempre più grande lì, dove l'oblio scuro e buio accompagnava alghe e animali sconosciuti, nascosti, frutto di fantasie ancora bagnate dai sudori dell'incubo. Lentamente e lontana, l'onda si muoveva.
Partorita da un soffio di vento, quello stesso soffio che si usa per cacciare la ciglia fastidiosa morta nell'occhio brillante, quello stesso soffio che prometteva a centinaia di metri più in là, la morte nella trincea di sabbia. Lenta ma più veloce di prima pensava. Ricordava e piangeva perché vedeva al di là del monte una lapide giallastra, luccicante in ogni sua piccola e microscopica materia, che l'aspettava meschina, scura. L'aspettava morire, addormentarsi per sempre, solleticando di piume ogni piccolo granello. E piangeva e s'infuriava, e si affogava nella propria schiuma, scavalcando ansimante ogni piccola crescente onda che sulla strada ora bluastra incontrava. Al monte crepuscolato precedeva una salita. Una strada faticosa che la rendeva lenta, sopita e di nuovo silenziosa. Appariva morta da lontano. Un coma breve nella quale già, appena dietro un cespuglio, vedeva la luce. Alcuni dicevano che non si sarebbe mai più svegliata. Ma lei ci credeva e quando sentì i piedi scivolare su lame bagnate e verdastre capì che il monte del crepuscolo aveva abbandonato la sfida, e si svegliò. Nel buio, tocco le nuvole e si lanciò. Corse, corse non seppe neanche lei quanto, con lo sguardo fisso alla meschina lapide, fredda e sola. Lasciava ora la schiuma dietro di sé, come capelli posseduti dal vento, quel vento che padre e madre l'aveva creata. Furiosa sradicava ogni cosa, specchiandosi nell'acqua sempre più chiara, mangiando ogni metro sotto la pancia, mentre con i cavi dei nervi duri, divorava ogni vita, la sua vita e vedeva più vicina la trincea infame. La lapide impaurita ora correva, inerme alla sfida, cercava di nascondersi muta tra gli spazi vuoti nati nei granelli. Nervosa e potente era arrivata a solcare quell'ultima metro, saltava e abbandonava la schiuma al suo destino sulla rena, mentre si ergeva immensa e travolgente, toccando le nuvole e ricadendo. In quell'istante, prima d'infrangersi in gocce sulle case, si sentì viva ed ad un attimo dalla fine, rinfrescata da un soffio di vento ed una ciglia, morì satura di pianto sui visi sorpresi di chi piegò.






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Buonanotte

I lampioni accesi da poco
Fanno della strada
Una manto a chiazze
Di falsa luce,
sotto il calpestio
gommoso delle macchine.

Il crepuscolo
Appena nato scorge
Il paesaggio rossastro
Trai buchi delle mura,
che alla luna
mostrano le loro ombre
ormai mescolate alle stelle.

Si raffredda
La carne nelle strade
E l'erba piange rugiada
E i fiori intimidiscono
E sembra che tutto riposi.
Al canto del gufo
La città di ferma.

In spiaggia
Il mare chiede perdono
Addolcendo la rena
Con le carezze delle onde
E le stelle in acqua
Sembrano gli occhi
Di mille pesci a guardare il cielo.

Un uomo e una donna
Dormono come in una fessura
Nel proprio letto.
Una donna ed un uomo
Viaggiano già in terre
Che non ci appartengono.

Un essere strano ed ansimante
Contrariamente alla notte
Si muove sinuoso,
metà donna, metà uomo,
amando in disparte dal mondo,
giocando all'amore
tra bianchi prati
raccolti in una pianura chiamata cielo.

La notte nasconde
La notte crea
La notte ama e raffredda
La notte mora, buona e silenziosa
Termina al cadere della
Lacrima sulla lama della foglia,
morendo, albeggiando.
E la luna
Abbraccia il sole
Cedendogli il cielo.





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La poltrona


Il velluto del braccio destro della poltrona lasciava sui polpastrelli un'insostituibile sensazione tattile. Le scanalature di quel tessuto combaciavano ermeticamente con le dolci e rovinate linee delle dita, e il ripetere quel movimento gli addormentava i sensi in stimolanti ricordi fanciulleschi.
Rapaci grida di bimbo soffocavano sotto la musica che come onde di vento copriva soavemente le grida, portandole così a muti schiamazzi oltre una siepe, leggeri all'orecchio ed elettrici alle cellule del cervello.
Gli occhi si chiudevano a piccoli intervalli in cui alternavano il buio a spezzoni sempre minori di vita colorata. Mobili di noce scolorivano in mogano e lo stesso velluto rosso delle braccia della poltrona imporporava ad ogni cadente intervallo. Sembrava che ogni battere di palpebra scandiva il tempo che fuori correva più velocemente, attraverso lo spazio, riducendo la giornata primaverile, quasi in perpetua eclissi. La musica continuava a vivere e a ridere nelle casse e morire sul vellutato sudario, sulle coste lisce, ormai quasi nerastre. La mente era sempre più conciliata dall'abbraccio caldo e pulito di quella poltrona, tanto che il susseguirsi degli intervalli divenne sempre meno frequente, lasciando al buio di primeggiare sul dominio dei colori nell'iride. Gli occhi chiusi riconoscevano le onde che la musica fletteva nelle orecchie, raggiungendo le cavità del timpano e impregnando di note la spugna cerebrale. La melodia diventava sempre più ruscello e poi fiume assumeva sonorità cupe e distorte non corrodendo però i meravigliosi ritornelli, tenendoli intatti alla mente. Una barca fatta di pensieri dondolava giù per il fiume e poi ruscello, con le vele gonfie di note e di righi che le facevano da motore per raggiungere le profonde caverne della testa.
E di questo vento viveva la barca, il legno si nutriva di quelle sonorità, nascondendosi e partorendo scricchiolii puliti e musicali. Il mutare delle onde condusse il ruscello in un piccolo lago, sperduto tra rocce e cavità non conosceva i sapori dell'aria, e in esso il vento morì. Non c'era musica, ne colore, ne la poltrona, solo rocce ibride dure e frastagliate prendevano forma umana, dimensione grottesca, orrida e mostruosa, umana. Accanto ad un sasso poteva osservare una roccia dal petto squarciato, proprio in cui moriva il pendente, da una stalattite affilata attaccata per una estremità da una pietra con cinque dita. Forse al sicuro sul legno galleggiante, era dolorante ai timpani. Quella musica era entrata in lui come una droga e l'astinenza lo rendeva folle. Nel delirio scorgeva volti di pietra, con occhi, orecchi e naso, con le bocca aperta, deforme dal dolore e dalle grida mute. Eppure le sentiva. Udiva i pensieri di ogni masso in un turbine di voci disumane, sgraziate nell'abbandono, perdute in quell'antro cavo di acqua flebile e pietra malvagia. Scopriva con gli occhi incolori diversi gruppi di pietre, mentre sentiva salire su per il naso odori acri, di muffa, di morte.
Disperato e annebbiato nella vista, cercava freneticamente l'origine di tutto, dell'odore, del non-suono, attorcigliando le mani tra le catene dei capelli, cercando nell'acqua torbida un segno, un qualcosa che gli avrebbe dato la speranza di uscire da quell'incubo, un impulso di luce o di colore capace di riaprirgli finalmente gli occhi. Non poteva nascondere alla barca la natura della sua paura e nel susseguirsi sfrenato di facce umane pietrificate lasciò nel buio i sensi.
Fiutò l'odore del legno ed era ancora sul vascello quando riaprì gli occhi.
Sembrò un istante, eppure non conosceva l'entità temporale del suo svenimento, non credeva che esistesse effettivamente del tempo in quel luogo. Tutto sembrava evolversi verso un'idea precisa, un'idea follemente concepita dalla propria mente. Si sentiva sempre più debole e a poco a poco abbandonarsi sino a raggiungere la materia del legno. Si chiedeva se l'imbarcazione fosse abitata, se oltre a lui altri sventurati subivano la stessa tortura. Voltò le spalle e con le poche forze rimaste si diresse barcollando verso una porta. Sembrava innaturale e incastonata in un grosso contenitore di noce sulla quale era conficcato un robusto palo che fungeva da albero maestro. Eppure reale, la porta si apriva, una leggera pressione e il buio non era mai stato tale. Annusava confusamente ma la mescolanza di odori precedentemente sentita non lo aiutava a distinguere gli elementi presenti in quell'anticamera. Era una stanza molto piccola, gobbo nella schiena, restò qualche minuto immobile a capire cosa effettivamente gli stava accadendo. Sperava in quel momento che i suoi occhi concepissero un barlume di luce, una luminosità che nella pupilla non vedeva da un bel po' di tempo. Passarono degli attimi, il tempo che una ciglia ha di staccarsi dalla palpebra, e flebile e lunare, una fiamma fertilizzò l'aridità del buio nascendo da un'arcano lume in cima alla porta. La pupilla dilatata ci mise un po' ad abituarsi ma quando fu pronta rifletté sul fatto che davanti a lei c'era appeso uno specchio. La cornice di legno ricca di particolari, presentava intagliati volti umani simili a quelli sulle rocce la fuori, e la grandezza fisica dello specchio permetteva di notare nella penombra altre piccole rifiniture. Il viso tirato assunse lineamenti spaventosi mentre si accorse che lo specchio rifletteva la porta dietro di lui ma non l'ammasso di carne di cui era fatto e che inorridito lo osservava. Si avvicinò calcando la fronte umida sul vetro irriflettente, ma questo sembrava ignorarlo e deriderlo. Si specchiava nella cornice, più che nel vetro che gli raffreddava la fronte. Staccò la fronte da quel mostro, gli voltò le spalle e urlando corse fuori, attraversando a forti scricchiolii il ponte del vascello, era folle ormai e rideva, rideva, mentre le acque del fiume portavano la barca sempre più in la, in un posto indefinito chiamato morte.
La luce del sole viveva nella rossa poltrona.
Portava leziosamente i suoi raggi sul pallido volto dell'uomo che in quel momento sprofondava sulle coste del velluto Magenta. Fu ritrovato così, nel pieno della primavera, mentre la musica dolcemente fletteva i rami insieme agli usignoli, con gli occhi sbarrati e le linee della bocca in un muto e terrificante urlo. La poltrona era piena di se, il suo colore vivo si nutriva di quelle paure che regalavano alla spugna di cui era fatta una morbidezza incantevole e sognante. Affascinava i salotti di ogni tempo avidamente affamata di chi assaggiava le spore del suo velluto, conciliandoli il sonno e accompagnandolo su per un vascello di noce e di pensieri, tra cavernosi viadotti cerebrali, dove tra volti di pietra avrebbe incontrato la follia prima della morte.



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