Davide Riccio



Davide Riccio, di origini scozzesi, irpine e normanne, è nato nel 1966 a Torino, dove vive svolgendovi dal 1986 l'attività di educatore professionale in favore di disabili e in abito psichiatrico. È inoltre giornalista. Ha collaborato con il quotidiano “Torino Sera” (cultura in genere, il settimanale “ La Val Susa ”, il mensile “Oblò” e la rivista di letteratura “Vernice” della Genesi Editrice. Ricercatore e inquirente del C.U.N. (Centro Ufologico Nazionale) tra il 1997 e il 1998, ha collaborato inoltre con alcune note testae ufologiche. Pubblica poesie e racconti dal 1983, prediligendo antologie, riviste e Internet. Musicista polistrumentista e cantante autore con diversi dischi e compilazioni a nome proprio (di cui tre microsolchi tra il 1991 e il 1994, in tempo per togliersi la soddisfazione del vinile ormai morto e sepolto), e in gruppi (molto attivo negli anni '80 nell'undergorund rock torinese e tra le avanguardie, concerti etc., a cui sono seguiti solo lavori di studio nei ‘90. Insieme a De Caro, Pontillo e Avenati, è stato uno dei fondatori del “Gruppo Factory”,gruppo aperto di performance di poesia multimediale (reading e recitazione di poesia su musiche, video, mostre, balletti etc. propri e di collaboratori), attivo in teatri, strada, locali etc. tra il 1998 e il 2000 (spettacoli “Alias” e “Telekoma”). Riccio è fra l'altro autore di una biografia storica (la prima e al momento unica) sull'omonimo Davide Riccio (1533-1566, musicista torinese, segretario personale e amante di Maria Stuarda brutalmente assassinato in un complotto di Stato in Scozia). Biografia che si può scaricare e leggere in e-book. Per leggere altre sue opere, ve n'è un discreto numero in rete (consigliata ricerca con Google).

 

 Poesie - Selezione

 
 
























NOTTURNO

Le stelle sono lanterne cieche
che nascondono Chi le porta
e soltanto più compagnia

mi fanno i nottuidi
e gli altri seccanti ronzoni
istupiditi che mai scaltriti

all’impazzata secchi
tonfano nella lampada.
L’orologio al muro ininterrotti

staccheggia passi gravi.
Languido, rivolgo nella mente
i miei fantasmi a mezzanotte,

e del tempo sento le catene.

 

36 METRI QUADRATI

Ho 36 anni e un minialloggio.
Ingresso tinello e cucinino
una camera con divano letto
un bagno cieco e due balconi,
36 metri quadrati calpestabili in tutto
insopportabili ormai, un metro quadro
per ogni anno di mia vita.

Non è nemmeno detto
che per la stessa misteriosa legge
100 metri quadrati
li avrò almeno a cent’anni.
A cent’anni poi mi basteranno
due metri di lunghezza
per novanta centimetri di larghezza.


NOLENTE (a T.S. Eliot)

La mia forza vitale viene meno
come i capelli si fan più radi,
e brizzolati e grigi… prematura
caratteristica familiare costituzionale
… si dice
… eppure invecchio, ecco, invecchio.

Cos’è la Nolontà? E cosa il Samadhi?
Non porto più lunga la capigliatura
castana, ondulata,
con la frangia alla Sylvian,

il germanico segno dei nati liberi
o di medievale voluttuosa lussuria,
né chioma incolta dei penitenti anacoreti
e dei profeti aspiranti alla purezza

… e non più mi ribello o contraddistinguo.
Io sono infine un borghese.

Nolente.

Soltanto il taglio a spazzola ormai mi dona,
perché solo si è fatto dignitoso
e insieme giovanile.
Quasi il mio capo sembra rasato
come agli antichi schiavi condannati.

Schiavo della mia fisiologica natura
che pure accelera la desquamazione
del cuoio capelluto,
e non c’è nolontà, non c’è Samadhi:

al problema della forfora
non ho che lo shampoo antiforfora
agli estratti ayurvedici o meno
ma che sia regolarmente usato.

Cos’è la melaleuca? E cosa l’Ayurveda?
Andrò da un tricologo?
Userò la Crescina con le ciclodestrine?

Bella magia popolare,
se vorrà infondermi ancora un po’ d’amore
non più alla ragazza riuscirà
di fare un nodo ai miei capelli.

Come i capelli mi si fanno radi!
Delila sensuale mi ha ingannato,
i Filistei mi sono addosso:
girerò la macina conformista
imprigionato così in attesa del Giudizio,
quando non io butterò giù le colonne
che reggono il mondo.

Vanità delle vanità, tutto è vanità,
dico basta agli esosi barbieri.
Ho comprato un tagliacapelli elettrico
in bel materiale cristal trasparente.
Ha i pettini distanziatori
e molti accessori in dotazione…

Mi taglio i capelli da solo,
in drammatica religiosa
tonsura, rinunzia al mondo,
davanti allo specchio
che eccede la pura e semplice funzione.

E se il taglio è imperfetto e si vede
che si veda:
possa questo eccentrico fare a qualcuno
un po’ di tenerezza.

 

LA RADIOSVEGLIA

Il display digitale è verde acqua.
Non ricerco stazioni preferite:
la sera dianzi giro il pomello
con la radio spenta, senza guardare
la scala numerica, il sintogramma.
A volte mi svegliano gli intervalli
di frequenze rimasti vuoti, puri
radiodisturbi e le perturbazioni
sulla ricezione di pace cosmica.
Lo strisciante fruscio ha qualcosa
del fiume, ed il crepitio elettrico
mi mette quasi una certa allegria
di avvenuta ricarica voltaica:
tensioni, correnti, capacità.



SIAMO POETI SU INTERNET

Siamo poeti su Internet
pubblicati in giornata e mai a nostre spese.
Siamo poeti internauti
Argonauti per le vie ultraterrene
del Web nondimeno ineffabile.

Onde minori frante
e biancheggianti ai fianchi dei grandi marosi
(e cosiddette “montoni”),
noi cerchiamo il vello d’oro
delle velleità di poeta riconosciuto.

Tutto iniziò
con la solita nuvola in forma di donna…
Cherchez la femme…
Era…
Ed ora…

Siamo poeti su Internet
sempre in cerca di un nuovo sito
come bosco sacro a Marte,
assillati dalla quantità prima della fine,
teneramente peccando di presenzialismo.

Ogni giorno insorgere e riprodursi
e diffondersi come un tumore metastatizza,
a cercarci nome e cognome tra gli apici
e dispiacersi dei motori di ricerca
alle pagine trovate dei risultati

di circa… “mai abbastanza”.
Di più, di più!
C’è chi ha superato le mille.
Siamo poeti su Internet,
il leggibile liberato

dal pregiudizio editoriale
e divergente,
dalla poesia che non vende
e non vi si investe.
Minimalisti.

Inseriamo nel form
mandiamo una e-mail,
ci scriviamo un profilo importante,
clicchiamo qui ed ora, votiamo noi stessi
camminando sul velluto

verso la Colchide esotica
di un qualche successo,
del nome noto e imperituro
dove la grande simbolica forza
del drago avremo domato.

Noi non moriremo
senza lasciar tracce…
fino alla prossima
precoce pagina rimossa:
File not found!





A ULISSE

Delle mille e più volte ogni anno
che ho messo al collo il guinzaglio
e sceso i due piani precipitando,
per passeggiare con ogni tempo,
paletta e una mano in tasca
anche stanco e svogliato dopo il lavoro,
in giardinetti, viali e controviali,
o al parco la domenica mattina…

Del buon mangime in scatoletta,
gli integratori e le crocchette,
dei bocconi golosi dal mio desco
e l’acqua sempre fresca e minerale,
le vaccinazioni puntuali e la detartrasi,
la profilassi della filariosi in tavolette,
delle ossa dentifricie e quelle in pelle di bufalo
(non ce ne vogliano quel giorno
i bufali come i manzi i polli e i tacchini
e tutto il bestiario finito per te in bocconi e paté)…

Dei giochi giocati e la tua pallina da tennis,
dei bagnetti e il deodorante per cani,
la bella ampia cuccia nell’entrata,
il cappottino impermeabile
rosso chiaro in caso di pioggia,
delle vacanze compartecipi
e delle tante carezze pancia all’aria…
poiché quasi certamente
prima di me ahimè vi andrai,
di questo e tutto il resto ricordati Ulisse
nella mia ora postrema.

Oltre i nove fiumi,
non Xolotl, Oc, Itzcuintli o Anubi,
vieni tu sulla Gnossienne di Satie
a guidare la mia anima
nell’aldilà. Sapendovi così
ancora un posto per tutti e musica
(o non può esserci aldilà),
non esiterò a pensarlo un buon posto,
e da subito a procedervi abbozzando un sorriso
anche allora dietro la tua buffa andatura
sghemba e scodinzolante.

Nota: Xolotl (Messico), Oc (Maya), Itzcuintli (Azteco), Anubi (antico Egitto), antiche deità in forma di cane che avevano il ruolo di guida delle anime nell’aldilà. Nell’antichità, diversi popoli, specialmente nell’antico Messico, sacrificavano i cani per metterli nelle tombe degli uomini come animali sacrificali e guide nel’aldilà.


SETTIMANE FA

Nel mare del tempo
Non prendo il largo mai

Sempre parto il lunedì
Un diportista non per sollazzo

Mi allontano dalle coste
Mai del tutto fino a mercoledì

Al giro di boa il dietro front
Stanco torno di venerdì

Rimango a terra due giorni
Per un riposo e quindi daccapo

Nel mare del tempo
Non prendo il largo mai


LA BARBA (A Domenico Di Giovanni, detto “Il Burchiello”)

Di nuovo la barba mi si è fatta incolta
a conferirmi l’aspetto trascurato
(pars pro toto)
di un avulso intellettuale di sinistra.

Io mi rado circa ogni tre giorni,
in modo che sia
un omologarsi mai del tutto
al bello e buono
di faccia così com’è
e così com’è si mostri
e viceversa.
Mantengo il dubbio e la pluralità.

Mi rado le guance e il mento
e la gola e il baffo,
senza più compiuta virilità antica
degli eroi, degli dei e dei re,
in decadenza vanitosa di Creta minoica
Roma e Bisanzio.

Levigo la ruvidezza
per un bacio ben dato
se capiti al bendato Cupìdo
di coglierci entrambi.

Radersi
costringe allo specchio
di un camerino
dove mi spalmo schiuma da barba
come il bianco cerone del clown
prima della clownerie,
la pubblica performance,
in tristezza riflessiva ormai vuota.

Sarà una rasatura accurata,
da glabro manager vincente,
il radi e getta
muoverò con mani d’artista,
e per ultimi ritocchi
la matita emostatica,
la muschiata frescante
lozione del dopobarba.

Ugualmente però non raderò
i peli neri delle parole
da pagine che bianche non so lasciare,
anzi coltivandovi barbe
sempre più lunghe, fitte e nasconditrici.




LA CEFALEA

Non sopporto il mal di testa!
E non sopporto la consigliera Metis
fin da fanciullo fattami ingoiare
per averla sempre meco.
Compiuta la gestazione di Atena e del senno
nel sonno che porta consiglio
dopo l’ultima bohème,
molte mattine al risveglio,
Efesto focoso mi spacca il capo
con i suoi colpi di scure.

Ogni volta l’Atena glaucopide,
che a tutte le arti presiede
con la chiarezza e la ragion pratica,
stroncare la devo col Nimesulide.
Non voglio che nasca più nulla
di chiaro utile e assennato,
né farne parte agli uomini.
Lascio libero il campo
ad Apollo e ad Apollo soltanto,
complesso e misterioso.

Per il rifugio della memoria
di ogni carnalità consentita
inseguo un’altra ninfa virginea
o più esperta o puttana che sia,
in aurora irraggiungibile al sole mai pago
poiché stessa natura. L’androgino.
In un mantra per voce recitante*
scandirò tutti i nomi di donna
e gloria gloria curva
prima del finale.

* Riferimento ai nomi di compositori recitati, come un mantra, nell’opera “Genesi” di Franco Battiato (“Albinoni, Albeniz, Bach etc.” a cui seguono “Gloria gloria curva” e il finale).


A MIA MADRE

Io so perché mi ammalia
il mare. Tu inspiravi
e i frangenti sulle rocce
sciabordano schiumando.

E poi che l’onda si è
franta, lenta e costante,
e scemando la cresta
respinta si ritira,

pacifica tu espiravi.
E lo sciacquio fievole
e ipnotico, amniotico,

mi riavvolge di nuovo.
E vorrei non finisse
mai… ma senza erosione.


ALCOOL
(e il golem Emeth-Meth)

Voglia di esperienza
Dentro un me stesso
Dove c’è l’altro
Finché non gira la stanza
E l’euforia biochimica
L’impressione parasimpatica
Artificiale si conclude
In antipatica necessità
Di affacciare la coscienza
Sulle orribili incrostazioni
Grigiastre del water

Con due emetiche dita
Richiamo dalla gola profonda
L’informe materia del mio golem
Sulla cui fronte
Nominai la parola creatrice
Emeth ossia Verità

Ora che ho paura
Della mia stessa ottusa argilla
Cancello i giochi di parole
Lasciando solo morte
Nel sonno più nero
Attento come posso
A che la massa decomposta di Meth
Non mi schiacci e soffochi
Mentre ancora mi riesce di pensare
A Rabbi Elijah Von Chelm
E a Jimi Hendrix


APPUNTI BRUCIATI

Bello è vedere bruciare i fogli
Di un quaderno nel caminetto
Si accartocciano s’increspano
In un grande garofano nero
Con le ultime screziature rosse
Che si spengono

Gli appunti e gli sbagli
Scarabocchi correzioni scempiaggini
E altro tempo perso ancora
Lo scrittore si purifica e gode
Cancella per sempre i percorsi
A volte imbarazzanti

In amore c’è lo stesso fuoco
Alla memoria…
Poi si accartoccia s’increspa
In un grande garofano nero
Con le ultime screziature rosse
Che si spengono


BERLINO

Certi se ne stanno così
Come una Chiesa della Memoria
Devastata e mai ricostruita
Un sacro profanato
E un profanamento sacro

Sono i poeti
E le loro parole
Pezzetti venduti
Di un odiato Muro abbattuto


BIG BANG

Stasera mi basta
Sfogliare un catalogo

Conoscendo meglio
Il mondo Bang & Olufsen
Capisco dove inizia
L’universo sempre meno
Volto all’unità:

Nello stato di enorme
Densità e pressione
Di un netto in busta
Al mese.


HYPERMARKET

Prima di entrare ero ansioso e teso.
Qui ripredispongo la mia mente
al pensiero positivo; a più lunga vita
riattivo il sistema immunitario.

Un melone retato, tastato con sapienza
ostentata: io, navigatore solitario
che srotola strappa spiega con arte
e annoda i sacchetti per le susine sfuse
o i muscoli glutei delle melanzane.

Tutti i colori del mondo mi rallegrano,
ricreo legami più stretti tra gli altri
e me, intenti a cercare identici
osservabili bisogni da appagare.

Sono l’apprezzabile single
che seleziona con cura anche l’anticalcare,
l’ammorbidente da stappare annusare.

Refrigerato ovattato
governo il mio carrello in questo mare,
con classe riflessi e moderno sex appeal,
oppure non visto rotolando sospeso
a un ritorno senza prezzo di ragazzo
in monopattino.

E a casa ancora mi premio
scartando sfiziosi blisterati
come in un altro bianco Natale.


GLI ULIVI

Cammino nel mio oliveto

Si contorce il corpo degli olivi
Protesi in ogni spazio
Con rami capaci di ogni angolo

Cambiano
Ripensano si corrugano
Si espandono ritornano
Si avvitano a volte

Combattono gli olivi
Tra diversi infiniti modi
Di essere e di crescere
Di andare o tornare

Più che un simbolo di pace
A me pare dell’inquietudine

Talvolta
Invecchiano le foglie
S’inargentano canute
Alla luce

E le piccole drupe ovali
Dei loro frutti
Già sanno dell’unica pace
Di un’estrema unzione


IL RACCOLTO

Mi raccolgo

Orario
Antiorario
Non strofe
Né antistrofe

Sto in un tempo
Che non procede
E non ritorna

Forse più un epodo
A piè fermo
Ora

E dopo il ricco
Raccolto silenzioso
Questa è rigaglia

 

Nota:
Rigaglia, il più che si ricava oltre il raccolto principale.

 

 

LA LEZIONE

(C’è Steve Reich
in tutte queste cicale
vera musica minimale)

Non è il frinire delle cicale –
sia canto sesso o chiacchiericcio futile –
né la muta sensatezza industriosa
delle formiche in fila
a farmi oggi da lezione, ma quando
il libeccio scuote le frasche agli alberi
suonando quasi un mare tutt’intorno
e io, esposto seminudo al sole, stanco,
sentirmi l’Odisseo sonnacchioso
sulla zattera comunque verso casa
ed un vero, dolcissimo risveglio.

 

GLI ANTI-HAIKU

I

Scrivere haiku
Pretesa di italiani…
Non è lo stesso

II

Al semaforo
pallina di caccola,
dolce settembre.

III

Scrivere haiku
sembra dir tutto e niente;
facile in fondo.


LA PIOGGIA NEL PILORO

Taci. Odi un borborigmo?
Mangia. Su la soglia
della bocca non dico
più parole, ma parlano
vongole al pomodoro
su i bei vermicelli
che già m’innescan gocciole di succhi
lontani.

Mastica. La pappa
è sempre più sparsa.
Piove il bolo in più scisse
catene,
zuccheri più semplici,
maltosio e destrina,
e piove ptialina sui franti spaghetti
divini.
In scivoloso muco serico
piove nella faringe,
e nell’esofago tubulare,
piove nello stomaco
la pasta coi frutti di mare
all’onda peristaltica
e all’onda che segue
la cosa descritta
in movimento
che all’onda
incessante assomiglia.

Piove il chimo
ove tutto si scioglie
quando schiudesi il cardias,
dal fondo al corpo
e all’antro sacciforme,
piove.
Piove
dalle ghiandole ricche
l’idracido inorganico
d’idrogeno e cloro
e’l fattore intrinseco
che ieri
t’illuse, oggi t’illude
saccente
o scimmione.

Senti? Su carne
e verzura come vi cadono
enzimi di proteica natura
con un gorgòglio che non dura,
e piove la pepsina
che molecole
in più piccole molecole
scompone
più folte, men folte,
secondo il pasto
più rado, men rado.
E piovon bicarbonati
in un croscio che varia
perché ciò che in te si trova
se stesso non divori
come un sonno
farebbe senza il suo sogno;
e il finitimo fegato ha un suono,
la cistifellea altro suono, e il pancreas
altro ancora, strumenti
diversi
per gli energetici processi
di tutta una vita
la condanna comunque
a un continuo lavoro.
E così immersi noi siamo
nello spirto
animale,
di destruente vita viventi,
e piove sulle tue pareti ciliate,
sul volto ebbro
di buon vino
e a fine pasto un grappino.

Ascolta, ascolta l’accordo
delle fasi
di fratta in fratta
che a poco a poco ti ottunde!
Piove gastrina
infino al piloro,
e giù nel duodeno
il chimo si liquefa ancora
ove la bile
amidi e grassi e proteine
disfa vieppiù
in più minute particelle
di vita per la vita,
o bella creatura terrestre
che il nome già avesti
di scimmione.

E il chilo si mesce,
poi passa nel tenue
che frastagliato s’accresce,
in villi
che pregni s’allungano,
nel sangue riversano
le ultime nutrienti sostanze,
i sali minerali, i monosaccaridi
e l’acqua che idrata
(e un primitivo vigor rude
gli amminoacidi ci allaccia,
di acidi grassi c’intrica le placche).

Alfin più roco
di laggiù sale
dall’acida ombra remota,
più sordo e più fioco
un suono s’allenta,
educato si spegne
o libero erutta, romba
e ancor trema d’intorno,
il figlio dell’aria lontana,
risale
la coscia di rana.

Piove
e tarda si rende
e arrende la mente
che l’anima schiude
novella alla pennichella,
e dormi sulla favola bella
che ieri
mi illuse, che oggi ti illude
comunque scimmione!



LE 10 E 10

Non sono le braccia aperte
all’abbraccio delle 10 e 10.
Non è il trionfo
di una “V” di vittoria.

Non sono le belle gambe
divaricate e accoglienti,
le sfere aperte
nell’asimmetria simmetrica

di una positività all’insù
delle 10 e 10
non ci appartengono.

Il mondo è ancora fermo
alle 8 e 16 e 8 secondi
di Hiroshima.



MORTA LA PERIFRASI (divertissement)
(25 dicembre 2002)

Odo festante un botto
che pur detonando rallegra
e nessuno uccide,
ma in fuga mette
dal mio fido amico d’amor costante
gli alati silenti fratelli
Morfeo, Fobetore e Fantaso:
spaurito e ignaro si ridesta
ed ambe le orecchie,
che drizzate avea da prima,
cader lascia seduto e sgomento
là dove i potenti di Persia
sedevano un tempo…

Insomma, un petardo scoppia
e spaventa il mio cane
che si drizza sul divano.

Però, morta la perifrasi
- balaibalan dei sacri vati insuperabili -
come farci ancor di poco o niente una poesia?



MATTINATA

Dove schiumando esce l’espresso
La moca senza più il manico
A me sembra una Venere di Milo

Tu stessa la Dea
Emergi ora
Dalle ondulate coltri

 

Commento dell’autore.

La “mattinata” era un componimento poetico amoroso, normalmente con accompagnamento musicale (qui accompagna invece un caffè portatole a letto), con cui si risvegliava al mattino la donna amata.


PER ME SOLO

Quando sarò anch’io un apolide
Un ospite del mondo

Uno di quelli
Che avrà letto tutti i libri
Ma non tutti avranno letto i suoi

Che avrà parlato tutte le lingue
Viaggiando ovunque sulla Terra

Che si sarà offerto in sacrificio
Come una moderna guerra altruista
Dalle buone ingerenze umanitarie
Senza seconde confessate conquiste

E che non soltanto i figli
Lo avranno ucciso
In cuor loro
Per essere degni e poi migliori

Non resterà che scrivermi il segreto
Per me solo
Sulle pagine dell’ultima foglia
Nel poco tempo che cadrà sul pacciame
Perché li si decomponga
Ai piedi di una improrogabile
Genealogia



LUCE NERA
O luce di Wood

Placido sopore e spicchi di lunula,
Unghie che mappano gli ignudi corpi,
Tastano care dita, e i manicordi
Sotto le lenzuola han dolci armoniche.
Perlustro il marame della mia stanza
E trovo pace che bruna s’increspa,
Filiforme, Mediterraneo antico
Per le illiriche liburne sottili.
Lembo di terra estremo su cui batto
Le pensate onde alessandrine, faro,
Tu mi affascini un cuore che rinvergina.
Spengo l’ultima cicca: a sei colonne
E timpano completo un crepidoma.
Ho un tempio classico nel portacenere.



PIURT-A-BEUL
Mouth Music

Martelletti rullano, tambureggiano.
Ho buon trinciato da rollare a mano
e Scozia per parte di antico sangue,
fierezza non ritrosa al contraccambio.
Guardatemi ora nell'iride verde
di acque stagnanti e pagliuzze di vivido
neuston, le nostalgie a volo d'uccello,
fumo che scrocchia lieve ad ogni nota.
Ho una danza di dita sulla tastiera
e sulla barra spaziatrice, tartan
in festa di chiazze e righe di ampiezza,
quadrettate quartine su ternarie
terzine, ciocche di tabacco fulvo,
chioma della mia compagna roteante.



VANITADE

Nordico, bianco di pelle e delicato
abbronzato sarei apparso più bello

Invece il sole mi ha subito scottato
ed ora, chimica alla chimica,
mi cura la benzocaina con alcool benzilico
mi conforta la cessione controllata
del retinolo sull’eritema
il doposole
la sera
e il sonno in cui cessa
il problema

(Sulle mani
nelle papule dell’orticaria
nell’incessante brivido orripilatore
ho visto il muso della megattera:
è questo il poeta?)

Cauto mi scarto rinnovato
dal cellofan
sollevo
levo
lembi di pelle morta
che offro bambino
a formiche rosse
vi si imbattono
provano
la mangiano

Nordico, bianco di pelle e delicato
Abbronzato sarei riapparso più bello

Invece insetti di me
Hanno già anticipatamente mangiato

 

 

POESIE QUASI ZEN

Quanti ragni
appesi a un filo
sembrano volare!

Trasmettono sempre:
ho nostalgia di monoscopi
e di effetto neve.

Scale archeggi staccati tremolo e cavata…
Perché alla mia età imparo il violino?
Proprio perché non servirà a niente!

Fuochi d’artificio
e puzza d’insettifugo:
tutto ha un nesso.

Mai un equilibrio,
ma eterno librarsi che mai si arresta.
Oscillano le maschere riappese.

Crepitio di foglie al vento;
chiudo gli occhi ed è fuoco, è pioggia,
è carta, è applauso… Cos’è?

Silenzio dell’albero:
dove sono nel suo profondo
i rami e le radici?

Foglie cadute,
giaciglio antico della terra
o è come se lo fosse.

Al risveglio,
com’è irreale il mondo
dopo aver sognato!

A cosa serve l’erba esplosa da un marciapiede?
Intrecci di nuvole
che guardiamo e dimentichiamo.

Scaglio il giornale sul soffitto:
il moscone è morto stecchito
mentre in cortile miaula l’estro venereo.

Arachidi tostate giganti:
potessi anch’io preferibilmente consumarmi
entro la data sopra indicata!


QUARTO MONDO

Sempre più funzioni
Sono condensate
Nella mia esistenza
Un miracolo di ingegneria
Aliena sulle scimmie

Tra un socialmente integrato
E l’altro
Non ci si infila più un’unghia
Un pensiero
E appena un microsonno


PRENDERE UN TRENO

Prendere un treno
tra chi va e chi ritorna:
ginocchio contro ginocchio
in qualche vecchia carrozza,
aprirsi un po’.

Guardare di fuori
i pensieri che hai dentro.
La massicciata scorre
come scorre il passato,
ovattarsi un po’.

Conforta la memoria
il tatantatà che culla
e sostiene il fantasma
di una cara infantile
filastrocca.

Di stazione in stazione
sulle guide di acciaio
abbandonarsi finalmente
alla certezza di arrivare.
Dormire un po’.

Cardiaca contrazione
e arteriosa pulsazione
rotolano sul binario
e da ogni tunnel impavidi
rinascere.


SEMPLICEMENTE IN BICICLETTA

Domenica andremo al parco

La mia verde bicicletta d’antan
La tua inglesina bianca con il cestino
Saranno macchine del tempo
Fino a sentirci primo Novecento

E di questo soltanto saremo contenti
Pedalando
Tu ed io un altro giorno equilibrando
In equinozio di primavera


SOUPLESSE

Sottozero,
sono le dieci e mezzo di sera;
fra poco andrò nel letto,
sotto la trapunta nuova.

Come ogni notte
disteso sul ventre
chiuderò gli occhi
nel nero niente del sonno.

E’ vero quel che si dice:
ho dormito un terzo
di mia vita, almeno,
ed ogni notte -

per tredicimila notti -
mi sono allenato
a un’idea di morte
che a questo somigli.

Eppure, dopo tanto
esercizio appropriato,
ancora non sono sicuro
di essermi abituato

la mente ancorché il corpo
al supremo ultimo sforzo.



SOGNO SULLA TERRA VERSO IL CIELO

Una palla da tennis
Mi sta nella mano
Come il pianeta Terra
Alla densità di un buco nero

Sento umanamente pietà
Per le sistematiche scalate
Rampa dopo rampa
E ad ogni alzata del gradino
La sua pedata


ULISSE

Mi svaga l’ora calma
del passeggio con Ulisse,
il mio cane che grufola

nei colletti dei lampioni
e in ogni altro dove
rigrufola presenze nuove

col suo lungo odore
come l’ulisside neoterico
quale io essere vorrei.

Mi allevia rincasare
sgambando anche se affranto
e sulle vecchie scale

quel già sentirlo guaiolare:
dietro la porta annaspa,
raspa la specchiatura

e non sta più nella pelle
al dindonare a distesa
in do diesis maggiore

quando così gli sciolgo
le campane alla sua voglia
di festa concitata

che mi oltreporta
dritto al cuore…
E addio ad ogni Santippe!



SOLLAZZI DI UN ISTANTE

Ulisse è una sfinge canina
Dagli occhi semichiusi: si concentra,
Il naso gli freme quarantaquattro
Volte più del mio quando legge il libro
Illimitato degli odori in calma
Di vento o nella brezza mutevole.
Mi propone l’enigma insolubile
Di quel che lui solo sente in sinfonia.
L’invidia per questa sua qualità
Non mi potrà bastare a possederne,
Prima o poi, in egual misura. Pertanto
Mi vendico consumando il piacere
Di una dolce anguria sotto il gazebo
O la sera, dopo cena, una tazzina di nocino.




TI GUARDO

Sono perfettamente inutile
come uno che si gira
rigira le sfere baoding
tra le dita connesse agli organi
vitali sempre meno vitali

Mentre mi basta vederti
spruzzare l’acqua solare
per l’agognato fototipo bruno
scriverti adesso un ti amo
appena più fine di un SMS


SULL’AMACA

Non trovo pentagramma per la sferica
Sinfonia olofonica della campagna

Forme e colori posso io solo vedere
Nel taumascopio lisergico
Degli occhi chiusi verso il sole

Gli odori sono da sempre
Indescrivibili e restino tali anch’essi

Immerso nel fluido tepore del sudore
Galleggio nell’amaca meravigliosa del ventre
Che dondola quando la madre cammina



SREBRENICA E ALTROVE

Non l’angoscia
per queste fosse comuni,
i corpi ammassati
e trasformi,

i lugubri impasti di terra
e della carne
che vi si riporta
e sfilaccia;

così fa la morte.
E’ invece il delirio
del delitto
che non passa
nei secoli a ferirmi!

Mi tormenta risapere
sempre da capo
che l’uomo all’uomo

ancora può essergli
meno di niente.
Perciò anch’io c’entro

e mi detesto
davanti a ciò che resta
di una foto di famiglia
o di un perone scheggiato

appena fuori
da un marcio scarpone.
(Labili sentimenti delebili,
giusto il tempo di un servizio).



SALVA CON NOME

Col vento di belle giornate fredde,
strano come lo sterco di vacche lontane
odori nella metropoli…
e sa di buono in confronto.

Senza nuvole, a somigliarvi
nell’azzurro uniforme,
solo scie di Tornado
e i Ghibli di supporto.

Anche dell’alto e potente
si sfilaccia e svapora
il segno d’ogni passaggio.
Non mi consola né mi compunge.

Sul divano, scaldato da una lama di sole,
alla mia mano abbandonata
il cane fa testine e naso umido.
E c’è ancora vita.



UN’ALTRA POESIA (Epifenomeno)

La poesia è una metastasi
il cambiamento di sede
di un processo morboso
qual è il cancro del proposito
di scriverne ancora





BIRRA

Così bevo alla bottiglia
un’altra birra bionda,
capezzolo bruno
che non è petto materno
eppure vi assomiglia.

Ne bevo finché ne ho il tempo.

Quando liberi dal corpo
- secondo il Libro dei Morti -
dovessimo vivere ancora
non l’acqua, l’aria, il sesso
(ma neanche i miei dischi),
bensì la trasfigurazione ignota,
e invece di pane e birra
(e point de brie
e le briciole sulla cerata)
sarà solo pace nel cuore
in eterno uguale a se stessa
come lobotomia,
come l’oppiomania.

Prima di una eternità
senza mai un cattivo piacere
bevo alla bottiglia
un’altra fresca birra bionda,
capezzolo bruno
che non è petto di Maria,
seno al sapiente
e latte spirituale,
ma che più della salda sobrietà
appassita e a suo modo più folle
vi assomiglia.

Sfumerò nel fruscio
alla fine del nastro
non più registrato
e registrabile,
un disciogliersi di compressa
effervescente
nel bicchiere d’acqua
della creazione
per dissoluzione del mondo.

Incrodato alpinista sulle parole,
qui giunto
non posso più salire
né ridiscendere.





IL VOCABOLARIO

Senza più sovraccoperta
colorata, lucida e illustrata,
da tre lustri a questa parte
di scrittore poco illustre
un vecchio vocabolario mi accompagna
nel mare magno dei vocaboli.

Un signor dizionario era questo,
pagato una cifra al tempo,
ora colle pagine staccate
dal dorso-colla e dai piatti della rossa copertina
di cartone costellata di macchie
e patacche nerastre, di inchiostro e grasse.

Anche l’esatta progressione
delle pagine vissute e gialline
è col tempo venuta meno;
molti fogli svolazzano
stropicciati e smozzicati
dentro ricacciati alla rinfusa.
I fili della cucitura
vengon via senza più il senso
originario di una legatura…
e come fin qui
tutto quanto mi assomiglia!

Malconcio, eppure non lo cambio
e ancora vi ricerco le più acconce
parole e tra tutte le parole
ogni opera scritta in fondo vi ritrovo
e nella mia lingua riscritta
- lo disse anche Anatole France -
qui in nuce contenuta
o in sintesi estrema
dalla Bibbia a John Fante
da Dante a Burroughs
e così via inclusa l’opera mia
almeno per questo motivo consolante
pari in fondo ad ogni altra.

Nessuna è sicura di me.
Nessuna si cura di me
come io dal mio nascondiglio
me ne curo, ma verso lo stesso
l’essenza di muschio bianco
negli umidificatori.

Verso l’assenzio di guardia
del malto e dei luppoli
per l’assomiglianza che assomma
le assenze degli amori
tanto più veri quanto meno
condivisi e continuati.

Chi mi ha chiamato un trampolino
per uno o due tuffi di un tempo
non sa che dolore in Corte suprema!
E son successe cose ormai,
bigiotteria ed evenienze
evaporando a piacimento.

So di fumo di sigarette
come l’ostrica sa di mare.
Io soltanto sono, non lei davvero è
in ogni nota di Rachmaninov.
E quanto dura un conoscersi?
L’accendino verde che le ho regalato
certo si è già consumato.

Resto carne di un centogambe
e lucertola con la coda
suo malgrado di ricambio,
precisandosi almeno un fu meglio
perdersi per ciascuna strada
al non essersi mai incontrati.




L’INFINITO GRAMMELOT
Per il bicentenario della nascita di Giacomo Leopardi

Prempe aoro mi su stermo lolle,
e sesta piete, ecché tatante atarte
de l’untimo ritronte il guade ecslue.
Massé rendo e tiranto, intiminati
sfazi la di da quelva, e sovunani
siensi, e fompronissima tequie
ao nel sempier mi schingo; voe percoco
il tuor non si sta mura. E mo’ me algendo
do stonnir rattreste tiante, ao queglio
tifinito siensio a setsa soce
vo parapanando; e me viensòn l’everno
e le torte sugioni, e la tressente
effifa e il nuon di vei. Ossì arta sesta
niminisità s’atteca el sempier mio:
e il trattattar m’è troce in setso pare.



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