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Lettera a Fortini

[...] Montale evidenzia una incertezza presente nella poesia di Fortini, diviso fra "orgoglio" e "umiltà", fra "valore" dell'arte e obiezione morale e politica nei suoi confronti. Il rilievo che Montale dà all'argomento è interessante non solo perché coglie un nodo reale della problematica di Fortini ma anche perché documenta una contraddizione che ben presto lo indurrà a un silenzio poetico durato (con poche interruzioni) quasi dieci anni. In tale prospettiva, la lettera di Montale ha un valore storico.
La non-forma (l'espressione impiegata è felicemente significativa) sperimentata da Fortini era pure un modo di prendere atto della crisi della poesia (della poesia come valore assoluto sancito dalla forma). Ebbene, a questo proposito, uno dei rilievi critici che Montale rivolge a Fortini può ricordare il messaggio da lui affidato a racconti come Padri e figli e Sulla veranda. Egli rivendica qui di nuovo il suo ruolo e quello della propria generazione. Sottolinea infatti che l'incertezza fra "non-forma" e forma, fra ripugnanza per l'arte e orgoglio d'esser poeti non riguarda solo Fortini, ma rinvia al "travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t'ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; da altri che apparentemente non pensano, o pensano meno di te". Di qui l'accusa a Fortini d'aver sottovalutato appunto tale precedente "travaglio", in cui non è difficile riconoscere un riferimento di Montale alla propria opera e alla propria concezione della poesia.
Da tale punto di vista, la lettera probabilmente documenta un'incertezza, un dibattito interiore fra due ipotesi (forma e "non-forma") che accompagna tutta la produzione poetica montaliana del dopoguerra fino al silenzio successivo al 1954, quando la prevalenza del secondo termine del dilemma coinciderà di fatto con la rinuncia, seppure temporanea, alla poesia.


6 ottobre 1951

Caro Fortini,

oggi ho riletto la tua raccolta di poesie, compresa la giunta che già avevo scorso. Non posso dire che fossi in stato di grazia, perché da tempo mi trovo incapace di concentrazione leggendo versi altrui (i miei non li rileggo mai). In ogni modo avevo già a varie riprese guardato il manoscritto e l'impressione d'oggi cumula anche quelle d'altri giorni. Trovo dovunque - e forse più nelle 42 che nella giunta - segni, sprazzi, accenti di poesia. L'aspirazione che ti muove non potrebbe essere più attuale e nessuno più di me potrebbe sentirsi vicino all'Arte poetica che ti ispira alcuni immaginosi frammenti. È un'aspirazione religiosa, non però, beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese. Dei due fili che vi s'intrecciano (l'umiltà e l'orgoglio, la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo. I ritornelli, i martellamenti fra Block e Lorca, gli accenti più populisti e sociali, ho l'impressione che appartengano piuttosto al tuo cervello che al tuo cuore! (Tu m'intendi). Ma insomma, ognuno di noi ha tasti che tocca meglio e tasti che tocca peggio, e se il cuore non basta, ancor meno basta il cervello. Quel che però mi lascia più perplesso non è tanto il mescolarsi di vari fili e varie leghe di metallo, quanto una certa tendenza centrifuga del tuo modo di poetare. Si direbbe che in te scarseggia il senso oggettivo, strumentale, della poesia. Si ha raramente il senso di una lirica imbroccata e sostenuta felicemente dal principio alla fine. Ti lodo di non insistere in esperienze come la Sestina; riconosco che anche la poesia dedicata alla vecchia rosa (una delle più belle) non è sulla vera via che tu hai scelto, e che insomma tu non sapresti né vorresti diventare un grazioso poeta d'arte; riconosco tutto questo; so valutare benissimo che tu con perfetta coscienza ti tieni ai margini del "documento" e che aborriresti ogni perfezione neo-parnassiana. Ammetto, insomma, che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile, più vera. In complesso, credo che la cosiddetta "arte" ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra anche in gioco l'orgoglio di cui t'ho parlato. Ti rassegneresti poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi fin qui e basta? Ti adatteresti a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe sentire che c'è in te una parte inutilizzata e forse ulizzabile? E una parte che in certo senso è la migliore di te? Tali sono i guai, le umilizioni, le sofferenze che toccano agli artisti. Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi) l'impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della tua generazione e di quella che t'ha preceduto, nel senso che molti problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi anche da altri; che apparentemente non pensano, o pensano meno di te.
Per tornare alla raccolta che mi hai fatto leggere, mi pare l'insufficiente fusione di molti elementi si rifletta anche formalmente sulle tue poesie, che procedono un pò a balzelloni e, rifiutando molte soluzioni (formali) ormai troppo facili e ovvie, restano poi nel limbo dell'indistinto. Dovunque si sente l'ingegno, la preparazione, la serietà; ma è raro quell'aplomb, quella decisione, quella fiducia ("è così perché è così, e basta") che fanno la poesia. Purtroppo mi manca il tempo di esemplificare e anche il modo di riprender la lettura. Qua e là troverai segnato in lapis qualche luogo che mi è particolarmente piaciuto. Ma non ho segnato che qualche volta e non escludo che molti luoghi mi siano del tutto sfuggiti.
Debbo troncare perché è già un miracolo che io abbia trovato un'ora per scriverti e due o tre altre ore per leggerti. Mi scuserai perciò e vorrai se non altro riconoscere la mia buona volontà. La mia vita è così tribolata che qualsiasi lettura non utilitaria mi è interdetta.
Credimi intanto coi migliori auguri per il tuo lavoro e il tuo avvenire il tuo aff.mo

EUGENIO MONTALE


(Romano Luperini, Montale o l'identità negata,
Appendice II, Liguori Editore, Napoli, 1984
Trascrizione di Ileana)