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Montale evidenzia una incertezza presente nella poesia di Fortini,
diviso fra "orgoglio" e "umiltà", fra
"valore" dell'arte e obiezione morale e politica nei suoi
confronti. Il rilievo che Montale dà all'argomento è
interessante non solo perché coglie un nodo reale della problematica
di Fortini ma anche perché documenta una contraddizione che
ben presto lo indurrà a un silenzio poetico durato (con poche
interruzioni) quasi dieci anni. In tale prospettiva, la lettera
di Montale ha un valore storico. Caro Fortini,
oggi ho riletto la tua raccolta di poesie, compresa la giunta che
già avevo scorso. Non posso dire che fossi in stato di grazia,
perché da tempo mi trovo incapace di concentrazione leggendo
versi altrui (i miei non li rileggo mai). In ogni modo avevo già
a varie riprese guardato il manoscritto e l'impressione d'oggi cumula
anche quelle d'altri giorni. Trovo dovunque - e forse più
nelle 42 che nella giunta - segni, sprazzi, accenti di poesia. L'aspirazione
che ti muove non potrebbe essere più attuale e nessuno più
di me potrebbe sentirsi vicino all'Arte poetica che ti ispira alcuni
immaginosi frammenti. È un'aspirazione religiosa, non però,
beninteso, della religione che corre oggi nelle strade e nelle chiese.
Dei due fili che vi s'intrecciano (l'umiltà e l'orgoglio,
la dedizione e la rivolta) molto più tuo mi sembra il primo.
I ritornelli, i martellamenti fra Block e Lorca, gli accenti più
populisti e sociali, ho l'impressione che appartengano piuttosto
al tuo cervello che al tuo cuore! (Tu m'intendi). Ma insomma, ognuno
di noi ha tasti che tocca meglio e tasti che tocca peggio, e se
il cuore non basta, ancor meno basta il cervello. Quel che però
mi lascia più perplesso non è tanto il mescolarsi
di vari fili e varie leghe di metallo, quanto una certa tendenza
centrifuga del tuo modo di poetare. Si direbbe che in te scarseggia
il senso oggettivo, strumentale, della poesia. Si ha raramente il
senso di una lirica imbroccata e sostenuta felicemente dal principio
alla fine. Ti lodo di non insistere in esperienze come la Sestina;
riconosco che anche la poesia dedicata alla vecchia rosa (una delle
più belle) non è sulla vera via che tu hai scelto,
e che insomma tu non sapresti né vorresti diventare un grazioso
poeta d'arte; riconosco tutto questo; so valutare benissimo che
tu con perfetta coscienza ti tieni ai margini del "documento"
e che aborriresti ogni perfezione neo-parnassiana. Ammetto, insomma,
che la tua mira è alta e che una certa tua non-forma nasce
dal miraggio di una forma più nuova, più impalpabile,
più vera. In complesso, credo che la cosiddetta "arte"
ti ripugni soprattutto per ragioni morali. Qui però entra
anche in gioco l'orgoglio di cui t'ho parlato. Ti rassegneresti
poi a dire (a sentirti dire): tu arrivi fin qui e basta? Ti adatteresti
a sentirti stimar meno di quanto tu potenzialmente sei? Ti piacerebbe
sentire che c'è in te una parte inutilizzata e forse ulizzabile?
E una parte che in certo senso è la migliore di te? Tali
sono i guai, le umilizioni, le sofferenze che toccano agli artisti.
Più volte ho avuto (non dico oggi, leggendo i tuoi versi)
l'impressione che tu sottovaluti il travaglio degli uomini della
tua generazione e di quella che t'ha preceduto, nel senso che molti
problemi che ti preoccupano sono stati sentiti e parzialmente espressi
anche da altri; che apparentemente non pensano, o pensano meno di
te.
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