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L'uomo in pigiama
Passeggiavo
nel corridoio, in pantofole e pigiama, scavalcando di tanto in
tanto un cumulo di biancheria sudicia. Il mio albergo era di prima
categoria perchè aveva due ascensori e un montacarichi
(quasi sempre guasti) ma non disponeva di un ripostiglio per lenzuola,
federe e asciugamani in provvisorio disuso e le cameriere dovevano
ammucchiarli qua e là negli angoli morti. A notte inoltrata
in quegli angoli morti arrivavo io, e perciò le cameriere
non mi amavano. Tuttavia, dopo aver dato qualche mancia, avevo
ottenuto il tacito permesso di deambulare dove volevo. Era la
mezzanotte passata. Trillò piano un telefono. Che fosse
nella mia stanza? Mi avviai con passi felpati ma sentii che qualcuno
rispondeva; era al numero 22, la stanza vicina alla mia. Stavo
per ritirarmi quando la voce che rispondeva, una voce di donna,
disse: "Non venire ancora, Attilio: c'è un uomo in
pigiama nel corridoio. Passeggia in su e in giù. E potrebbe
vederti".
Sentii dall'altra parte un confuso gracidio. "Mah?"
ripose lei "non so chi sia. È un disgraziato che fa sempre
così. Non venire, ti prego. Semmai ti avviso io."
Riattaccò con un tonfo, udii passi nella camera. Mi allontanai
d'urgenza scivolando come sui pattini. In fondo al corridoio c'era
un sofà, un secondo cumulo di biancheria e un muro. Sentii
la porta della camera 22 aprirsi; da uno spiraglio la donna mi
osservava. Là in fondo non potevo restare; tornai indietro
lentamente. Avevo circa dieci secondi di tempo prima di passare
davanti al 22. Fulmineamente esaminai le varie ipotesi possibili.
1) Tornare nella mia stanza e chiudermici dentro; 2) idem con
variante, informando cioè la signora che avevo sentito
tutto e che intendevo farle cosa grata ritirandomi; 3) chiederle
se proprio ci teneva a ricevere Attilio o se io ero un pretesto
da lei scelto per esimersi da un non grato bullfight notturno;
4) ignorare il colloquio telefonico e continuare nella mia passeggiata;
5) chiedere alla signora se intendeva eventualmente sostituirmi
all'uomo del telefono ai fini di cui al numero tre; 6) esigere
spiegazioni sul termine "disgraziato" col quale aveva
creduto di designarmi; 7) ... la settima stentava a formarsi nel
mio cervello. Ma ormai ero davanti allo spiraglio. Due occhi neri,
una liseuse rossa su una camicia di seta, una capigliatura corta
ma piuttosto ricciutella. Fu un attimo, lo spiraglio si richiuse
di colpo. Il cuore mi batteva forte. Entrai nella mia camera e
sentii il telefono trillare ancora al numero 22. La donna parlava
piano, non sentivo le parole. Tornai nel corridoio con passo da
lupo e allora qualcosa riuscii a distinguere: "È impossibile,
Attilio, ti dico ch'è impossibile...". Poi il clac
del ricevitore riattaccato e il passo di lei verso la porta. Con
un salto mi pecipitai verso il cumulo d'immondizie numero due,
rimuginando in cuor mio le ipotesi 2, 3, 5. Lo spiraglio si aperse
ancora. Fermo là era impossibile restare. Mi dissi: sono
un disgraziato, ma lei come ha fatto a saperlo? E se passeggiando
la salvassi da Attilio? Oppure salvassi Attilio da lei? Non sono
fatto per essere l'arbitro di nulla, tanto meno della vita degli
altri. Tornai indietro trascinando una federa con una pantofola.
Lo spiraglio era più largo, la testa ricciuta sporgeva
di più. Ero a un metro da quella testa. Mi irrigidii sull'attenti
dopo essermi liberato con un calcio dalla pantofola. Poi dissi
con voce troppo forte che rintronò nel corridoio: "Ho
finito di passeggiare, signora. Ma come sa che sono un disgraziato?".
"
Lo siamo tutti" disse lei e richiuse la porta di scatto.
Trillò ancora il telefono nell'interno.

(Eugenio Montale, "L'uomo in pigiama",
da "Farfalla di Dinard", 1970 Mondadori
Trascrizione
su PC di Mario Pachi)
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