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Arsenio
Arsenio
è una delle liriche più composte. V'è una ricchezza
spaziale che trabocca a ogni passo e ti toglie il respiro. Un tuffo
improvviso nel cuore dei frangenti, cui segue un sistema interno di
echi, che prolunga, specie l'ultima strofe. Un movimento deciso sin
dall'inizio verso quel finale senso di cedere degli astri, ove pare
che il poeta trovi l'innesto, la presa di risoluzione, e forse di redenzione,
di tanta stragorfia materia e moto. Alcune tappe di attesa e di silenzio
sono significative: i cavalli incappucciati; la tempesta è dolce
quando - sgorga bianca la stella di Canicola. Globi accesi. Lanterne
di carta. Ma sono appunti, soste rapidissime. Quel che rimane è
l'ondata violenta degli eventi, troncata di botto da una riflessione
finale, una persuasione dell'anima, ma non risoluzione degli eventi
per so stessi. Insomma la riuscita tecnica dà una sensazione
epica, non lirica. Ed è questo il Montale polemico, dialettico,
dispersivo, descrittivo. Abbiamo dinnanzi l'avventura diretta, percepiamo
l'attimo della sua vita, le scosse e reazioni delle cose" (0. Macrí).
(da
"Tutte le opere" a cura di Giacinto Spagnoletti, Bruno Mondadori)
I turbini sollevano la polvere sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finchè goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Cosí sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sè trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
(Eugenio Montale, Ossi di seppia)
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