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Meriggiare pallido e assorto
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N
ata nel 1916, questa poesia che è una delle più famose appartiene cronologicamente alla preistoria di Montale, pur contenendo già in sé tutti gli elementi della maturità del poeta: dal paesaggio basato sulla precisa osservazione degli aspetti naturali e sulla recezione dei suoni, alla lingua che gioca sull'intreccio delle assonanze e sull'onomatopea, alla precisa allusività dei simboli. Si delinea cosí al di là di ogni evasione fantastica, di ogni abbandono idillico, quello che è l'ambiente arido dell'uomo, fatto sguardo stupito e pietrificato. Ma la petrosítà, appunto, non è tanto una questione di contenuto, la petrosità è piuttosto un fatto di stile, di fulminea ed essenziale sintassi, quell"arte di incidere le parole come pietre dure, secondo ha suggerito qualcuno" (G. Getto).
(da "Tutte le opere" a cura di Giacinto Spagnoletti, Bruno Mondadori)


Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d' orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch' ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.


(Eugenio Montale, Ossi di seppia)