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La vita e le opere di Eugenio Montale
Il carattere del poeta si delinea con sufficiente precisione tra le righe di una Intervista immaginaria, pubblicata nel 1946. Scegliamo le frasi che ci interessano di più. "Non sono in grado di scrivere nulla su di me, né tanto meno per il popolo. Le mie poesie sono funghi nati spontaneamente in un bosco; sono stati raccolti, mangiati. C'è chi li ha trovati velenosi, mentre altri li hanno detti commestibili. Il bosco... era vergine; era stato concimato da molte esperienze e letture." Si noterà che l'autore evita di porre l'accento sull'originalità della sua voce. La spontaneità delle sue poesie, egli vuol affermare, non cancella il fatto di cultura che le sottintende. Ed è un'affermazione notevole di modestia, non solo, ma ci spiega l'origine riflessa, e riflessiva, quella che può manifestarsi nell'indole di un poeta di raffinata civiltà letteraria. Ma proseguiamo nell'autoanalisi delle sue liriche: "Nacquero per una volontà, un bisogno di esprimersi con certe parole, con parole che suggerissero un certo mondo fisico e morale. Incontro, dunque, di sensualità (verbale) e di ascetismo. Musica + idee, o meglio compenetrazione piuttosto che addizione". E siamo nel cuore effettivo della poetica di Montale. La forza nativa e comunicativa dello strumento linguistico - egli dice "certe parole" - viene applicata con un rigore ascetico per suggerire un mondo fisico e morale. A un processo comune a molti poeti moderni, e scaturisce dalla rappresentazione del proprio universo interiore; ma perché esso si singolarizza tanto in Montale, da spingerci a tenerlo come guida alla sua lettura? Ci apparirà più chiaro, quando avremo toccato qualche momento della vita e della personalità del poeta. Nacque a Genova, il 12 ottobre 1896, da Domíngo e Giuseppina Ricci. La madre era figlia di un notaio di Nervi, il padre gestiva con due cugini una ditta commerciale legata all'attività portuale con sede in piazza Pellicceria: importava acqua ragia, resine, prodotti chimici. Il padre era un uomo severo, di poche parole, rigido, secondo il cliché autoritario di quei tempi, ci informa il biografo di Montale, Giulio Nascimbeni. Da bambino, il futuro Poeta frequentò le scuole elementari "Ambrogio Spinola", poi fu iscritto alle scuole tecniche dei Padri Barnabiti: un'infanzia segnata da continue malattie. I fratelli avevano già fatto, rispetto al minore che era Eugenio, le loro scelte, solo lui, che aveva attitudini alla cultura, rimase a lungo incerto sulla carriera da intraprendere. Studiò quindi per suo conto sino ai trent'anni, incoraggiato dalla sorella Marianna, e rifugiandosi spesso a Monterosso, dove i familiari possedevano una villa, fra Vernazza e la Punta del Mesco, luoghi marini che dovranno tornare nei suoi ricordi poetici. «Quella di Monterosso - ha dichiarato il poeta in una recente intervista - è stata una stagione molto formativa; però ha anche costituito l'avvio all'introversione, ha portato ad un imprigionamento nel cosmo. Questa è stata una stagione molto formativa, ripeto. Ma sotto il profilo della maturazione culturale, i vent'anni che ho passato a Firenze sono stati i più importanti della mia vita. Lí ho scoperto che non c'è soltanto il mare ma anche la terraferma: la terraferma della cultura, delle idee, della tradizione, dell'umanesimo. Vi ho trovato una natura diversa, compenetrata nel lavoro e nel pensiero dell'uomo. Vi ho compreso che cosa è stata, che cosa può essere una civiltà. Poi ci sono stati gli anni che ho passati a Milano. Sono stati anni di lavoro un pò forzato. Qui, ho cominciato ad essere giornalista a cinquantadue anni; un pò tardi, purtroppo, per assicurarmi una vecchiaia di riposo. Sono stati, questi, anni di consolidamento e di stagionamento. Io sono come un vino che sta invecchiando. Il vino invecchiando dicono che migliori, ma non tutti i vini migliorano, alcuni inacidiscono. Io non so a quale vino potrò essere paragonato."
A Parma, al corso di allievi ufficiali ebbe la fortuna di incontrare Sergio Solmi, col quale, a guerra finita, nel 1922, fondò, sotto l'impulso di Giacomo Debenedetti, la rivista "Primo Tempo". Negli stessi anni conobbe a Genova Angelo Barile e Adriano Grande, ma soprattutto si legò di autentica amicizia con Camillo Sbarbaro. La "linea ligure" della nostra poesia, cominciata con Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, era già in atto. Le prime poesie di Montale (Accordi) videro la luce appunto a Torino, nel n. 2 di "Primo Tempo", una rivista che ebbe solo dieci numeri di vita. Esse rappresentarono il debutto del poeta genovese insieme con la lirica "Riviere", che le precedeva nello stesso fascicolo del 15 giugno. Ma, a differenza di quest'ultima, destinata a concludere - secondo le parole dell'autore "con una sintesi e una guarigione troppo prematura" - il drammatico messaggio degli Ossi di seppia, le liriche di Accordi non vennero comprese nel volume edito tre anni dopo da Piero Gobetti: l'unica salvata, Corno inglese, vi fu inserita con alcune varianti. Il 1922, che doveva rimanere terribilmente impresso nella memoria degli italiani per gli eventi politici, fu dunque anche Panno in cui cominciarono a circolare i primi versi di Montale. E non è senza significato che ciò sia accaduto a Torino, dove il movimento antifascista contava larghe partecipazioni intellettuali. I giovani redattori di "Primo Tempo" (fra cui ricordiamo, oltre i citati, Max Ascoli, Giuseppe Prezzolini, Ernesto Buonaiuti, Carlo Linati, Natalino Sapegno) erano usciti dall'esperienza della guerra mondiale senza un programma esplicito, ma avendo ben presenti gli errori e le tumultuose esperienze della precedente stagione «vociana». Tuttavia credettero bene di non aderire al programma quasi contemporaneo de "La Ronda". Quasi in sottintesa polemica con la rivista romana, Giacomo Debenedetti scriveva in apertura del primo numero: "Una sola voce di poeta potrebbe mostrare come ogni vero dettato poetico riposi sopra una sua legge elementare che non disciplina le proprie rivelazioni né sul ritmo delle teoriche, né sulla bontà o malizia delle stagioni, né sulla guerra o sulla pace". Il merito che oggi possiamo riconoscere a "Primo Tempo" fu di portare a contatto del pubblico non una ma addirittura tre voci importanti, sulle quali si creò più tardi il dibattito intorno alla poesia moderna: Saba, Ungaretti e Montale. I primi due erano noti ai lettori delle riviste fiorentine d'anteguerra, il terzo assolutamente inedito; e proprio quest'ultimo meglio di tutti doveva dimostrare l'assoluta necessità che ha "ogni vero dettato poetico" di distinguersi dalle teorie o dai programmi. Montale, è bene avvertirlo subito, s'è sempre sforzato di separare le sue origini da quelle di ogni movimento letterario. Riferendoci ai suoi, inizi, vale la pena di riportare un'altra sua dichiarazione, secondo la quale non c'era allora in lui alcuna "infatuazione poetica», né il desiderio di "specializzazione". In quegli anni, egli aggiunge, "quasi nessuno s'occupava di poesia. L'ultimo successo di cui abbiamo ricordo in quei tempi fu Gozzano, ma gli spiriti forti dicevano male di lui, e anch'io (a torto) ero di quel parere. I letterati migliori, che presto si riunirono intorno a «La Ronda», pensavano che la poesia dovesse scriversi, da allora in poi, in prosa. Ricordo che, pubblicati i primi versi, nel "PrimoTempo" di Debenedetti, fui accolto con ironia dai miei pochi amici (che erano già immersi nella politica, antifascisti dal più al meno, verso il 1922-1923). Lo stesso Gobetti che stampò il mio primo libro di versi nel 1925, non fu troppo soddisfatto quando gli mandai un articolo politico per la sua "Rivoluzione liberale". Credeva anche lui... che un poeta non può e non deve intendersi di politica. Aveva torto; senza contare che io non ero ben sicuro di essere un poeta". L'autore degli Ossi di seppia era più certo allora della sua vocazione musicale? Le liriche uscite nella rivista torinese (sotto il titolo di Accordi, e il sottotitolo di "Sensi e fantasmi d'una adolescente"), se non una conferma, ci danno in proposito un'indubbia testimonianza con l'esplicito riferimento agli strumenti musicali. Oltre al paesaggio ligure, la musica rappresenta, dunque, lo sfondo reale sul quale collocare la disperata filosofia montaliana. Questi due elementi, fusi assieme, si ritrovano in Accordi, come echeggeranno nelle dense sequenze degli Ossi di seppia: dove i presupposti letterari vanno cercati nelle letture attente dei simbolisti francesi, e in particolare di Charles Baudelaire, di Stèphane Mallarmé, di Charles Guérin e di Paul Valéry. Ad essi occorre associare i nomi di Arturo Onofri e di Dino Campana, senza escludere la «linea ligure», da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi a Camillo Sbarbaro, a cui abbiamo accennato. Un giudizio di Emilio Cecchi vale a precisare la tessitura interna di queste poesie: "Le parole sembrano scelte (scriveva l'illustre critico nel "Secolo`) soprattutto in vista dei valori di jato; con una predilezione di toni acri e vetrini; e le strofe si irritano in rime aguzze, come un muro al sole luccica di atroci cocci di bottiglia. Inamena giovinezza! Anche qui, nei rari momenti in cui lampeggiano lontane illusioni, sugli uomini e le cose il lume d'un'antica felicità si riflette con qualche cosa di irrevocabile, come di una beata naturalità, ormai corrotta e perduta». Nel 1928, gli Ossi di seppia vennero aumentati di sei poesie, fra cui "Arsenio", la capitale definizione della poetica montaliana, in un'edizione a cura dei fratelli Ribet di Torino: e la prefazione di Alfredo Gargiulo, che la accompagnava, metteva per la prima volta l'accento sulla "corrosione critica dell'esistenza", la prima formula esatta della lirica montaliana.
Dagli Ossi di seppia al libro successivo, Le Occasioni, pubblicato nel 1939, corrono quattordici anni di intensa esperienza intellettuale e umana. Montale non è un Poeta copioso, anzi, come Ungaretti è estremamente parco e prudente nell'accettare via via le conclusioni del proprio lavoro. Finora ha pubblicato quattro libri di poesia, di cui La Bufera e altro (1956) e Satura (1971) rappresentano la stagione conclusiva. Quando uscirono Le Occasioni, parve perciò che si potesse fare il punto sulla sua attività creativa. Era un libro attesissimo, e ricevette un tributo di attenzione da parte della critica davvero imponente. Cerchiamo di afferrarne il significato. Le Occasioni sviluppano la tematica degli Ossi di seppia in una direzione nuova. Abbiamo intravisto quale sia la rappresentazione del mondo offerta nel primo libro. L'uomo porta il contributo vano della sua coscienza al dramma oggettivo del mondo. Semplificando, potremmo dire che lo stesso dramma adesso non si svolge più davanti agli occhi del poeta, ma dentro la sua memoria. E i protagonisti sono i ricordi stessi. Negli Ossi di seppia, la vittima della distruzione eraclitea non si agita più, si fa trascinare dalla grande fiumana, dentro una poltiglia senza nome e senza significato che finirà come ogni altra cosa nel mare dell'essere. Al pari di Arsenio, Montale aveva accettato di vivere fra "una ghiacciata solitudine di morti", con qualche rara illusione di vita; nelle Occasioni (titolo scelto come suggerimento goethiano), l'estremo momento della tensione esistenziale ha luogo solo nella memoria. Giacché il libro è senz'altro il documento più rigoroso della crisi del sentimento poetico italiano fra le due guerre, osserviamo il meccanismo psicologico che lo regge. Che cosa viene suggerito da queste liriche? Che il mondo non può più parlare al poeta per segni fisici o cosmologici, ma attraverso folgorazioni, "barlumi". Ogni altra attitudine gnoseologica è perduta per sempre. E se i resti del mondo quotidiano, che il cosmico furore di "Arsenio" aveva dispersi, anzi inceneriti, ritornano come dilavati dalla tempesta a far ressa nella coscienza del poeta, questo non vuol dire che egli li accolga come un dono o un inizio di "fede" nelle cose. La drammaticità della vita, colta dal poeta, nel suo farsi, ha la sola funzione di mettere in moto una coscienza disincantata, che si dà a produrre vertiginosamente gli elementi autonomi del giuoco: gli oggetti. Ed ecco lo strano, assurdo incantesimo del "topo bianco d'avorio" di "Dora Markus" o l'abbeverarsi dei porcospini in "Notizie dall'Arniata". C'era da attendersi che, trasferito nel mondo della coscienza, l'esercizio euforico della memoria potesse diventare una spinta ai sentimenti; acquista, al contrario, il suo scopo definitivamente disumano: quello di ridurre i sentimenti a un commento cifrato, a un dato relazionale fra cosa e cosa, fra parvenza e parvenza. L'unica salvezza starebbe nel piopiziare una carità impersonale, valida per gli "oggetti" non meno che per Pio del poeta. Ma, pur intravedendosi di continuo, essa non è mai invocata da Montale che come elemento effimero di consolazione, quasi di superstizione.
Siamo giunti cosí al capo opposto di ogni possibilità
del vivere; a una fede di comodo, a un bene personale, antiromantico,
di cui ogni "occasione" conserva il segreto (da ciò
l'oscurità di molte liriche). Ma anche storicizzando il momento
di questa "chiusura", ci accorgiamo che qualcosa è
cambiato. Si è obbligati a constatare che tanto il tremendo,
elementare subbuglio della natura, quanto la sua verità nascosta
ed impassibile, non coinvolgono più il poeta. Ciò che
lo interessa è il "discorso", quel senso di perpetua
disponibilità nei confronti della parola da esprimere, allegoria
della propria esperienza privata. Egli è solo, e A questo punto, il poeta avrebbe Potuto trasformarsi in "romanziere", oppure soltanto in uno scrittore che rievoca i fatti della propria vita. E invece, ciò che rende singolarissimo, anche il successivo volume La Bufera, notevole per la densità dei temi affrontati, è questo sentimento profondo che ogni avventura della vita è costituita di "presenze", da interpretare, da rimettere a fuoco a distanza. Il lavoro di un romanziere si sarebbe fermato ai fatti, al valore rappresentato dagli eventi (ed essi, per lo più tornano nelle smaglianti prose narrative di Farfalla di Dinard, che rappresenta il "romanzo" di Montale); mentre il poeta, se li sollecita, via via li trasforma; e pare voglia adoperarli accuratamente deformati dalla sua visione indulgente, come eventuali strumenti di salvezza privata. La vita, che pareva ferma e chiusa, si rinnova: ora come un inferno senza nome, ora come una catarsi la cui tragedia venga celata dietro simboli o segni impercettibili. L'arte di Montale consisterà soprattutto nel non perdere di vista questi segni, lasciando da parte il quadro ipotetico della Storia e le sue illusioni sociali. Per ciò essa ignora il deismo cristiano, volto alla palingenesi spirituale o l'engagement tipico del dopoguerra. E se la scena de La Bufera resta, nonostante tutto, quella dolorosa della guerra, a differenza di Ungaretti e di altri poeti dell'epoca, inclini alla preghiera cristiana o alla rivalsa politica, l'autore può concedersi il brivido di una sottile pietas storica, con una civile distanza dai fatti, sempre teso al suo programma di autoconsolazione. De La Bufera nessuno potrà dimenticare i momenti drammatici, dove questa distanza diminuisce, e s'insinua una pietà familiare (la "Ballata scritta in una clinica", durante la malattia della moglie Drusilla Tanzi, "Voce giunta con le folaghe" "Proda di Versilia", "L'Arca", "L'anguilla"). Si avverte, da queste ed altre liriche, il segreto di una devozione esoterica, il peso del destino acquista un senso di fatalità qua e là misticheggiante, assieme al pensiero della morte che s'affaccia imperioso.
Un
grande, forse il più grande scrittore del nostro secolo, Carlo
Emilio Gadda, avvertiva fin dal 1932 questa dimensione tutta interna,
e civile, del messaggio montaliano: "Già si sentiva -
egli scriveva - sopra la sua vita e la brama di conoscere, di approfondire
l'attenzione e la conoscenza, si prevalutava e gli si accreditava
quella determinazione etica del pensiero da cui avrebbe avuto forma,
con gli anni, la sua civile grandezza".
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