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Commento a "La bufera"
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«La Bufera - scriveva Montale a Contini nel 1945 - è la guerra, in ispecie quella guerra dopo quella dittatura (vedi epigrafe); ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti». Se insomma la seconda guerra mondiale costituisce il tema principale delle poesie comprese in Finisterre - pubblicata nel 1943 e divenuta poi la prima sezione de La bufera e altro - è pur vero che di fronte a quel trauma storico l'immaginario poetico di Montale assume una píù profonda dimensione metafisica, quasi contemplando il male nella sua essenza, e contrapponendo a esso delle parvenze "angeliche", incarnate perlopiù dal personaggio-mito di Clizia. In questa poesia, che apre la raccolta, la presenza sinistra della bufera arriva a coinvolgere il «nido» della donna-angelo, sorprendendola e rivelando in un lampo la natura delle cose: la stessa capacità rivelatrice che Clizia porta dentro di sé come una condanna. E mentre la danza macabra della guerra imperversa sul mondo, Clizia si allontana con un gesto di saluto, come a sancire l'impossibilità di qualsiasi salvezza. Pubblicata sul periodico "Tempo" nel 1941, la lirica uscí in Fínisterre nel 1943, e fu quindi accolta nella prima edizione de La bufera e altro (1956). Nell'edizione in rivista del 1941 l'epigrafe era diversa ("Porque sabes que siempre te he querido", "Perchè tu sappia che ti ho sempre amato"), in quanto la censura fascista non avrebbe consentito l'epigrafe autentica, costituita da due versi del poeta francese Agrippa D'Aubigné (1552-1630) e ripristinata nel 1943).

RIFLESSIONI SUL TESTO

La poesia di Montale, che nel suo insieme può essere vista come una sofferta e disincantata ricerca di una linea di fuga dal non-essere della vita ordinaria, giunge in questa lirica a uno snodo decisivo, che è anche il punto di partenza per una diversa, più disperata visione del mondo. La salvezza incarnata da Clizia e l'inferno della realtà quotidiana reso ancor più cupo dalla guerra (ma non si dimentichi che per Montale la guerra è «cosmica, di sempre e di tutti») diventano due universi fra loro lontanissimi e non comunicanti, tanto è vero che la partenza di Clízia finisce col coincidere con lo scatenamento della danza macabra del conflitto (lo scalpicciare del fandango). In tal modo l'entità salvífica che negli Ossi e nelle Occasioni poteva ancora far parte della realtà («se procedi t'imbatti / tu forse nel fantasma che ti salva»), diventa qui una pura astrazione, con tutti i caratteri come ha ben visto Contini - del «mito»: un mito che certo ha a che fare con l'immaginario «religioso» del poeta - ma di una religiosità laica, mai risolta in dimensioni trascendenti o in atti di fede e che sublima una concezione dell'esístenza fondata su un'idea di separazione e assenza, in luogo della pur vaga presenza (dell'oggetto-amuleto, del «fantasma», della speranza) che aleggiava nelle due prime raccolte. In questa lirica gli oggetti mantengono il loro autonomo rilievo (sì pensi alla magnolia, o ai mogani e ai libri, o agli alberi, o ai molto montaliani muri), ma il loro valore simbolico è tanto marcato da sfiorare l'allegoria; parallelamente si intensifica e quasi si assolutizza la tensione analogica dei «Mottetti» (come è evidente nell'oro, nella grana di zucchero, nei sistri e tamburelli, nel fandango). Il «terzo tempo» della poesia di Montale si inaugura insomma su un registro ben più astratto e metafisico, in sintonia con la scarnificata essenza di quell'angelo lontano, di quella negata eternità d'istante, da cui ormai scaturisce una desolata e sinistra, e in fondo astratta, visione della realtà.



(V.De Caprio, S.Giovanardi
"I testi della letteratura italiana"
Ed.Einaudi . Pp 923-926)