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La disarmonia tra poesia e storia
di Betulla Arci Biffoni
(insegnante di Italiano e Latino al Liceo Classico "J. Stellini" di Udine)


Legenda per la bibliografia di riferimento

    AF  = E. Montale, Auto da fè, Milano 1966 
    BP  = G. Nascimbeni, Montale. Biografia di un poeta, Milano 1986 
    DP  = E. Montale, Diario Postumo, Milano 1991 
    EF  = L. Blasucci, Esercizio esegetico su una lirica di Finisterre,
             in "Linguistica e Letteratura",III,1978 
    EM  = M. Martelli, Eugenio Montale, Firenze 1982 
    LF  = G. Contini, Una lunga fedeltà, Torino 1974 
    MBS = U. Carpi, Montale dopo il fascismo da "Bufera" a "Satura", Padova 1972 
    MM  = L. Greco, Montale commenta Montale, Parma 1990 
    PM  = E. Montale, Poesie a cura di A. Marchese, Milano 1991 
    PN  = E. Gioanola, Poesia italiana del Novecento, Milano 1986 
    PR  = E. Montale, Prose e Racconti, Milano 1992 
    SM  = R. Luperini, Storia di Montale, Bari 1992 
    SP  = E. Montale, Sulla poesia, Milano 1976 
    TP  = E. Montale, Tutte le poesie a cura di Giorgio Zampa, Milano 1990

    Innanzitutto occorre spiegare il senso del titolo, in quanto di regola, a proposito di Montale, si parla genericamente di disarmonia tra poesia e reale. Il fatto è che, nonostante l'impegno attivo di Montale al "Corriere della sera" ed i suoi interventi come senatore a vita (amava definirsi "indipendente di centro"), che si concretizzarono nella presentazione, insieme ad altri, di un disegno di legge per la riforma dell'Università e nella presidenza del Comitato nazionale per il divorzio nel 1974, certi esiti della produzione montaliana (persino quelli conclusivi delle 30 poesie del Diario Postumo, edite nel 1991) autorizzano (credo) a ribadire la coscienza di "inappartenenza al mondo" che tutta la sua poesia più o meno direttamente dichiara. Scrive infatti nel 1973 (DP p.7), polemizzando con i burocrati arroganti chiamati fliaci travestiti da poeti, che

          L'esser poeti non è un vanto.
          É solo un vizio di natura.
          Un peso che s'ingroppa
          con paura.

    D'altra parte l'inconciliabilità ideologica del poeta con una concezione di impegno nella storia anodino e rassicurante, ma soprattutto di una visione storicistica secondo la quale tutto è spiegabile, razionalizzabile, prevedibile, è già largamente presente in Satura, edita nel 1971. Basterebbe a tale scopo leggere "La storia" (del 28.IV.1969; v. TP p.323), ove Montale rivela un spirito sarcastico, di ascendenza leopardiana, nel dichiarare il crollo delle illusioni -l'idea di progresso e sviluppo storico- che l'umanità ha costruito nel corso dei secoli attraverso il susseguirsi di tutta una serie di definizioni al negativo, che decretano inequivocabilmente l'assenza di ogni intrinseca finalità o razionalità nella storia. Peraltro Montale ribadisce il concetto con un suo commento personale alla poesia: Non credo nella storia, non si può fare una storia giusta, si può solo cancellarla, eliminarla. (v. MM p.62). Ed il poeta carica il messaggio in direzione parodistica, nella II parte, ove la verità si rivela estranea alla normale apparenza del vivere, se chi si crede partecipe della storia ne è in effetti prigioniero, se chi ne è miracolosamente scampato è invece inconsapevolmente libero.
    Rileggendo il testo, appare, a mio avviso, notevole il percorso stilistico, in direzione quasi giornalistica, compiuto da Montale che, pur incrementando la ricerca retorica, ne concentra gli effetti nelle parole più comuni, mirando a dissimulare la perizia tecnica con esiti talora volutamente goffi e grotteschi: la metafora gastronomica della "pentola della storia" che non prepara "cibi per il futuro" (nulla che in lei borbotti / a lento fuoco); l'imprevedibilità della storia le cui direzioni non sono verificabili attraverso la consultazione di un orario ferroviario (non procede / né recede, si sposta di binario / e la sua direzione / non è nell'orario); la negazione del principio ciceroniano dell'historia magistra vitae, cui tuttavia non corrisponde alcun progresso per l'uomo (Accorgersene non serve / a renderla più giusta); la storia -devastante ruspa- che smentisce persino i suoi interpreti, deridendone la prosopopea fondata su incertezze e approssimazioni (distrugge / quanto più può: se esagerasse, certo / sarebbe meglio, ma la storia è a corto / di notizie, non compie tutte le sue vendette).
    Analogo messaggio troviamo in altre due liriche della medesima raccolta: "Incespicare" (del 4.XI.1968; v. TP p.368), ove alla negatività della lingua degli uomini, che porta all'afasia determinata dall'insignificanza, si contrappone la balbuzie (la maniera comunicativa dei poeti) che, pur facendo meno rumore, è tuttavia necessaria per destare la lingua / dal suo torpore; "Le parole" (del 23.X.1968; v. TP p.373), il cui ridestarsi coincide con il rifiuto (da parte delle stesse) sia della mercificazione (non sono affatto felici / di essere buttate fuori / come zambracche e accolte / con furore di plausi [...] preferiscono il sonno / nella bottiglia al ludibrio / di essere lette, vendute, / imbalsamate, ibernate) che dell'assurdità di una concezione incontaminata (rifiutano la sede / più propizia, [..] la cartella / di cuoio o di velluto / che le tenga in segreto), fino ad accettare il rischio del compromesso (non chiedono di meglio / che l'imbroglio dei tasti / nell'Olivetti portatile), assumendo la condizione di "ostaggi" della storia per demistificarla dall'interno cosicché, una volta pronunziate, possano morire / con chi le ha possedute.
    D'altra parte, per capire che il reale non va confuso con la storia, potrebbe tornarci utile richiamare quanto Montale dichiara nell'intervista concessa alla RAI nel 1951 (da "Confessioni di scrittori (interviste con se stessi)"; v. SP pp.569-572), ove alla domanda su come un poeta abbia veduto e vissuto gli avvenimenti che fra le due guerre mondiali hanno straziato l'umanità, egli risponde:

    L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell'avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent'anni; [....] Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall'artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c'è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo; ma neppure ho scritto poesie ostili al regime d'allora; [....] non mi sarei provato neppure se il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia. Non nego che il fascismo dapprima, la guerra più tardi, e la guerra civile più tardi ancora mi abbiano reso infelice; [...] Ritengo [si tratti di] un inappagamento, un maladjustement psicologico e morale che è proprio a tutte le nature a sfondo introspettivo, cioè a tutte le nature poetiche. Coloro per i quali l'arte è un prodotto delle condizioni ambientali e sociali dell'artista potranno obiettare: il male è che vi siete estraniato dal vostro tempo; [....] Mutando e migliorando la società si curano anche gli individui; nella società ideale non esisteranno più scompensi o inadattamenti [....] e l'artista sarà un uomo come un altro che avrà in più il dono del canto, l'attitudine a scoprire e a creare la bellezza. Rispondo che io ho optato come uomo; ma come poeta ho sentito subito che il combattimento avveniva su un altro fronte, nel quale poco contavano i grossi avvenimenti che si stavano svolgendo. L'ipotesi di una società futura migliore della presente non è punto disprezzabile, ma è un'ipotesi economico-politica che non autorizza illazioni d'ordine estetico, se non in quanto diventi mito. [....] Sono disposto a lavorare per un mondo migliore; [...] Ma credo altresì che non sono possibili previsioni sul posto che occuperà l'arte in una società migliore della nostra.
    [...]
    [....] io gli avvenimenti che fra le due guerre hanno straziato l'umanità li ho vissuti standomene seduto e osservandoli. Non avevo altro da fare. Nel mio libriccino Finisterre (1) (e basta il titolo a dimostrarlo) occupa tutto lo sfondo anche l'ultima grande guerra, ma non più che di riflesso. Nondimeno la mia reazione era tale che il libro sarebbe stato impubblicabile in Italia. [..] La sola epigrafe iniziale sarebbe stata fumo agli occhi dei censori fascisti. [....] In definitiva, fascismo e guerra dettero al mio isolamento quell'alibi di cui esso aveva forse bisogno. [...] Dopo la liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata [....] Non vi mancano accenni a cose e fatti d'oggi. [...] a parte il loro valore, che non posso giudicare, debbo concludere che mi sento perfettamente a posto col cosiddetto spirito del nostro tempo.

    Continua è dunque la tensione del Nostro verso quella seconda vista dell'arte che è sempre discriminatrice e non può prescindere dal senso del bene e del male (da "Il fascismo e la letteratura" del 7.IV.1945; v. AF p.23); tuttavia è anche vero che Montale cerchi talora, con la sua poesia, di fornire contributi più precisamente politicizzati, sulla base della convinzione licitata in polemica con Falqui, quando nel '46 scrive che lo scrittore non è fatto a compartimenti stagni (l'arte da una parte, la storia e la politica dall'altra) (v. Lettera a Falqui, apparsa su "La fiera letteraria" del 31.X.1946). D'altra parte qualifica la resistenza della poesia e della critica in termini di testimonianza integrale dei valori e dei problemi del mondo -da cui in ultima analisi sono generate- allorché afferma che nei momenti critici in cui è persino a rischio la fiducia in una possibile vita civile, solo la nostra volontà di persistenza sa indicarci i libri d'arte narrativa che superano davvero le contingenze dell'estetica ed il vaniloquio delle tendenze (v. "Il mondo della noia" in AF, pp.79-82), i libri che nei tempi più duri resistono e assistono come compagni fedeli.
    In definitiva, per ben comprendere le posizioni politiche montaliane, occorre sottolineare la natura borghese-conservatrice del suo antifascismo (in base al quale il fascismo è sentito soprattutto come una malattia odiosa, estranea alla dimensione umana, come irrazionale cancrena), la cui qualità preminente va riconosciuta in direzione sostanzialmente morale, di civile esempio di resistenza alla dittatura. In effetti l'antifascismo di M. si è sempre configurato come rifiuto di una meschinità provinciale e di una sorda chiusura illiberale assurte a sistema di organizzazione della vita pubblica. Si veda in proposito l'articolo scritto nel 1925 per "Il Baretti" (anno II, 15.I; da "Stile e tradizione", v. AF pp.15-19) ove, affrontando il problema del rapporto fra stile e tradizione, rileva la priorità di un doveroso sforzo verso la semplicità e la chiarezza in un'Italia ove manca quasi del tutto una letteratura civile, colta e popolare insieme, come d'altra parte manca una società mediana, un abito, un giro di consuetudini non volgari; ne consegue che il poeta dovrà lavorare da solo e per pochi, in quanto di fronte non è che grossezza [...] verniciata di cultura e di sufficienza. D'altra parte in "Intenzioni (intervista immaginaria)", (v. SP p.561-563) del 1946, di fronte alla guerra e alla dittatura fascista, appare in difficoltà; ma non rinuncia a capire e ad orientarsi nel caos della bufera con una precisa scelta di intervento all'interno della storia e delle sue tempeste:
    Da molti anni la poesia va diventando più un mezzo di conoscenza che di rappresentazione. Spesso la si chiama ad un diverso destino e si vorrebbe rivederla in piazza. Ma coloro che abboccano e scendono nell'agorà son presto fischiati.
    [...] Il bisogno di un poeta è la ricerca di una verità puntuale, non di una verità generale. Una verità del poeta-soggetto che non rinneghi quella dell'uomo-soggetto empirico. Che canti ciò che unisce l'uomo agli altri uomini ma non neghi ciò che lo disunisce e lo rende unico e irripetibile.
    Testimonia di questa svolta persino una lirica come "Nuove stanze" (v. TP p.184; composta nel maggio 1939 a Firenze), ove il poeta imposta il mito di Clizia (2), còlta nello spazio intimo di una stanza borghese mentre spegne una sigaretta nel posacenere: sul tavolino davanti a lei una scacchiera, su cui alfieri e cavalli assurgono quasi d'incanto a rappresentare l'assurdo giuoco della guerra incombente; il fumo agitato da una finestra nascosta invita il poeta e la compagna a prendere contatto con la tragica realtà esterna: altro stormo, una tregenda d'uomini educati alla fede feroce (3) che distilla veleno, schierati per la guerra incombe -come nembo alle tue porte- sulla poesia e i suoi miti, gli unici cui è affidata "ogni residua possibilità di salvezza (se non di presenza) rispetto alle minacce della storia" (v. MBS pp.12-13). Tant'è che, se la volontà omicida di esseri demoniaci non si può facilmente vincere, nel lampo dello sguardo di Clizia è racchiusa una forza operante contro il male, capace di resistervi in virtù dei suoi occhi d'acciaio opposti allo specchio ustorio / che accieca le pedine (metafora del potere distruttivo della guerra contro cui l'unica salvezza trova, chi riconosce l'egida dello sguardo divino di Clizia).
    Fascismo e guerra costituiscono, in effetti, i due termini di riferimento fondamentali per la poesia montaliana dalle ultime Occasioni alle prime sezioni della raccolta La bufera e altro. Alla realtà oscura corrisponde, comunque, una volontà di comprensione e di partecipazione, che Montale realizza attraverso la poesia; o meglio, attraverso un estremo tentativo di recupero della propria tradizione culturale e delle vie di scampo che essa offre. In tale prospettiva si comprende la scelta decisiva della donna-angelo, del mito stilnovistico ripreso come ultimo disperato sforzo di colmare lo stacco tra poesia e storia, tra poeta e realtà (e mi sono affidato a lei, donna o nube, angelo o procellaria): infatti Clizia campeggia in tale contesto, sia pur con una fisionomia diversa da quella che assumerà nella sezione Silvae.
    Ed appunto con le Silvae si può far coincidere la produzione montaliana del dopoguerra : si tratta di liriche scritte fra il 1946 ed il 1950 (ad eccezione di "Iride", che risale al 1944), confluite nella raccolta La bufera e altro (edita per intero a Venezia nel 1956), che si articola in sette sezioni, a partire da Finisterre per finire con Conclusioni provvisorie. Tra le varie poesie, scritte fra il 1940 ed il 1954, ve ne sono contenute alcune che testimoniano un impegno politico-sociale, abbastanza insolito per un poeta come Montale, che rivendica la priorità della cultura sulla politica. Ma ci sono delle ragioni che spiegano queste scelte.

    Alla fine del fascismo -quando si conclude la prigionia nelle stalle di Augìa (da "Botta e risposta I" del 1961, II parte, vv.1-42; v. TP p.285)- Montale, che si trova a Firenze, avverte immediato il bisogno di manifestare un impegno nella rinnovata situazione, che si traduce nella collaborazione (dopo la breve parentesi dell'adesione al Partito d'Azione nel 1944) alla "Nazione del popolo" e nella fondazione, insieme ad Arturo Loria ed Alessandro Bonsanti (colleghi degli anni solariani), nonché ad Eugenio Scaravelli, della rivista "Il Mondo" (denominata dal 1947 "Mondo europeo"). Tuttavia, più urgente gli appare la difesa della linea culturale cui si sente legato -"quella della tradizione liberale più cosmopolitamente europea, attentissima nel contempo ai nuovi stimoli della sensibilità novecentesca : Eliot, Valéry, Larbaud, Joyce, Svevo" (v. MBS p.22)- da ogni tentativo di coinvolgerla nell'avventura fascista: si legga, per esempio, "Cronache di una disfatta" del 2.VI.1945 (v. AF pp.30-33), ove Montale ci fa comprendere come il fascismo sia stato l'esplosiva affermazione dei nostri aspetti più retorici e nazionalistici, più meschini e provinciali, lontani dal sano tronco liberale; tant'è che a lungo andare "del fascismo s'è venuta svelando la vera natura puramente fecale" (v. MBS p.24 e cfr. "Botta e risposta I", II parte, vv.10-14: Lui non fu mai veduto. \ La geldra però lo attendeva \ per il presentat'arm: stracolmi imbuti, \ forconi e spiedi, un'infilzata fetida \ di saltimbocca.)
    Nel '46 inizia la sua collaborazione al "Corriere della sera", che si intensifica nel '48, avendo tra i suoi momenti più significativi il necrologio di Gandhi (l'articolo, datato 31.I.1948, aveva per titolo "La missione interrotta"; v. BP p.109, ma anche MBS p.35 Carpi (4)), che consente a Montale di chiarire più precisamente le "proprie prospettive politiche", fino ad essere assunto collaboratore ufficiale del gionale. Gli anni del dopoguerra sono segnati anche dall'esperienza dolorosa della morte della sorella Marianna (la prima delle tante figure protettive di donna che si chinarono su questo introverso, dice Contini (peraltro Marianna attribuiva al fratello, che chiamava Genio, una strana, bizzarra, vivace, scarcastica intelligenza; v. BP p.22) avvenuta nel 1938 e poi della madre, Giuseppina Ricci Montale, nel novembre del 1942: esperienza che, per dirla con Luperini, spinge innanzitutto il "poeta a fissare l'immaginazione e la ricerca esistenziale sul passato, inducendolo ad una rielaborazione dei lutti familiari e a un recupero memoriale del tempo dell'infanzia" (v. SM p.110). Comprovano tale valutazione alcune poesie (v. TP p.199: "Su una lettera non scritta" vv. 11-14) di Finisterre (il capo al quale dal mare non giunge più alcun messaggio


          ...................... e non ancora
          tra le rocce che sorgono t'è giunta
          la bottiglia del mare. L'onda, vuota,
          si rompe sulla punta, a Finisterre),

    proprie degli anni di isolamento in mezzo alla guerra, che costituisce appunto la cornice entro cui si inseriscono le esperienze indicate nelle varie liriche.
    Per esempio "L'arca" (pubblicata il 25.II.1943; v. TP p.208), la casa-rifugio dell'infanzia (quella di Monterosso), "l'arca ... dell'Alleanza fra l'uomo e la divinità, contro il rischio di una loro dissociazione" che "porta in salvo il mondo basso e sotterraneo dell'animalità e dei defunti, dei <<desideri>> e dell'infanzia" (v. SM pp.130-131), capace di salvare dagli insulti del momento storico, la guerra vista come fatto permanente, quasi un'istituzione (come Montale stesso commenterà nella lettera a Silvio Guarnieri scritta da Milano il 29.XI.1965; v. MM p.56):

          La tempesta                                         10
          certo li riunirà sotto quel tetto
          di prima, ma lontano, più lontano
          di questa terra folgorata dove
          bollono calce e sangue nell'impronta
          del piede umano.;                         
                 15

    ma anche da quello dell'inesorabile passare del tempo, ove l'inciso riporta chiaramente al passato del poeta, quando il salice piangente (dopo l'immagine affettuosamente protettiva dei primi versi) sembrava quasi un compagno dalla testa bionda al fanciullo che ne stroncava i riccioli a colpi di fionda:

          La tempesta di primavera ha sconvolto
          l'ombrello del salice,
          al turbine d'aprile
          s'è impigliato nell'orto il vello d'oro (5)
          che nasconde i miei morti,                          
                   5
          i miei cani fidati, le mie vecchie
          serve - quanti da allora
          (quando il salce era biondo e io ne stroncavo
          le anella con la fionda) son calati,
          vivi, nel trabocchetto.           
                                        10

    É interessante notare come in un primo momento Montale volesse intitolare la sua III raccolta "Romanzo", intendendo riferirsi ad un genere che gli consentisse il recupero della dimensione temporale, in cui "il tempo, il senso psicologico che ci unisce al passato sono ancora avvertibili" (v. SM p. 119). Significativa in proposito appare l'elegia "A mia madre" (v. TP p. 211), scritta sullo scorcio del 1942:

          Ora che il coro delle coturnici
          ti blandisce nel sonno eterno, rotta
          felice schiera in fuga verso i clivi
          vendemmiati del Mesco, or che la lotta
          dei viventi più infuria, se tu cedi
          come un'ombra la spoglia
          (e non è un'ombra,
          o gentile, non è ciò che tu credi)

          chi ti proteggerà? La strada sgombra
          non è una via, solo due mani, un volto,
          quelle mani, quel volto, il gesto d'una
          vita che non è un'altra ma se stessa,
          solo questo ti pone nell'eliso
          folto d'anime e voci in cui tu vivi;

          e la domanda che tu lasci è anch'essa
          un gesto tuo, all'ombra della croci.,

    per la quale l'esegesi di Luigi Blasucci (v. EF pp.36-37; 42-43), analizzando le scelte lessicali del testo e confrontandone la struttura sintattica con quella metrica, individua nella seconda parte della lirica (di lunghezza esattamente identica alla prima, ma d'impostazione paratattica rispetto all'ipotattica della precedente) "il nucleo lirico-ideologico della poesia: dove alla fede ingenuamente astratta della madre il poeta contrappone la determinatezza di due mani, di un volto, di tutto ciò che insomma costituisce l'individualità concreta e irripetibile di una persona". Tant'è che l'eliso / folto d'anime e voci in cui tu vivi indica lo spazio intimo della memoria, dove si conserva il ricordo dei cari defunti, mentre la domanda che tu lasci è anch'essa / un gesto tuo, fa cioè parte della personalità della madre, che forse vuole chiedergli di credere nella sopravvivenza dell'anima cui il poeta non crede (o meglio, verso cui - coerentemente all'impostazione vagamente foscoliana del testo - mantiene un atteggiamento sostanzialmente agnostico).
    Nel recupero memoriale sollecitato dagli avvenimenti succitati rientra anche una lirica della sezione Silvae: "Voce giunta con le folaghe" (v. TP p.258), del 1947. Salendo al cimitero di Monterosso per far visita alla tomba del padre -Domingo Montale, morto nel 1931- il poeta cinquantunenne avverte che il cammino percorso nella sua vita è più lungo di quello che gli resta da compiere prima di ricongiungersi ai suoi cari attraverso il sentiero impervio (da capre) dov'è situato il camposanto (dove ci scioglieremo come cera); ed ecco apparirgli fuor del buio / che ti teneva, ai primi bagliori dell'alba (erto ai barbagli) il padre, il muto che risorge, il "padre severo, di poche parole, rigido, secondo il cliché autoritario di quei tempi" (v. BP p.18). Accompagna il poeta l'ombra di Clizia, intermediaria fra la vita e la morte, ombra fidata, purificata dall'antica passione (quella che scorporò l'interno fuoco), che col padre suo intrattiene un breve colloquio:

          L'ombra fidata e il muto che risorge,
          quella che scorporò l'interno fuoco
          e colui che lunghi anni d'oltretempo
          (anni per me pesante) disincarnano,
          si scambiano parole che interito
          sul margine io non odo; l'una forse
          ritroverà la forma in cui bruciava
          amor di Chi la mosse e non di sé,
          ma l'altro sbigottisce e teme che
          la larva di memoria in cui si scalda
          ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.

    Come dire che col padre, disincarnato dai lunghi anni nell'aldilà, il figlio pesante nella sua misura umana, non può da vivo avere un colloquio, per cui non conosce il senso della sua vita, non è investito di alcuna missione (si pensi al confronto implicito con altri incontri -Enea ed Anchise alla presenza della Sibilla, Dante e Cacciaguida alla presenza di Beatrice); per cui al turbamento di un padre di fronte all'inesorabile strappo della memoria che lo sottrae al ricordo dei figli corrisponde la carità di Clizia/Iride che, novella Beatrice, è giunta in volo con gli uccelli di passo a distaccare Domingo dai luoghi delle Cinque Terre, da una memoria in procinto di diventare oscura dimenticanza della vita, vile e spregevole rinuncia che, pur di conservarsi, finisce per ammuffire:


          - Ho pensato per te, ho ricordato
          per tutti. Ora ritorni al cielo libero
          che ti tramuta. Ancora questa rupe
          ti tenta? Sì, la bàttima è la stessa
          di sempre, il mare che ti univa ai miei
          lidi da prima che io avessi l'ali,
          non si dissolve. Io le rammento quelle
          mie prode e pur son giunta con le folaghe
          a distaccarti dalle tue. Memoria
          non è peccato, fin che giova. Dopo
          è letargo di talpe, abiezione

          che funghisce su sé..... -
          Il vento del giorno
          confonde l'ombra viva e l'altra ancora
          riluttante in un mezzo che respinge
          le mie mani, e il respiro mi si rompe
          nel punto dilatato, nella fossa
          che circonda lo scatto del ricordo.
          Così si svela prima di legarsi
          a immagini, a parole, oscuro senso
          reminiscente, il vuoto inabitato
          che occupammo e che attende fin ch'è tempo
          di colmarsi di noi, di ritrovarci.....

    "Così, con questo affacciarsi angoscioso e affascinato sulla zona d'oltrevita, si rivela quel vuoto che abbiamo occupato prima di nascere e che aspetta, inabitato, di ricolmarsi della nostra forma ritrovata, quel vuoto che, prima di diventare immagine e parola capace di esprimerlo, è come un'oscura reminiscenza" scrive Gioanola (v. PN p. 443). Si noti, comunque, come rispetto a "L'arca" (dove i morti, rappresentando la possibilità di vite ancora umane, rinviano al calore dell'infanzia irresponsabile e protetta), Clizia, prima associata, quale visiting angel, ai Lari protettori, qui si trasformi in vigile presenza che, simbolo di alterezza e di rigida durezza, invita al superamento di ogni residuo terreno. Tant'è che ne proviene la condanna della memoria, fino ad approdare ad un sostanziale nichilismo, per cui nel vuoto inabitato / che occupammo si svela il senso stesso del destino umano: l'angoscioso oblio che tronca tutte le speranze è l'unico che consente al poeta di ritrovare se stesso, le ragioni più autentiche del vivere.
    É proprio il rifiuto necessario della memoria che non è peccato fin che giova ma che presto diviene abiezione / che funghisce su sé a rappresentare, a mio avviso, il nucleo ideologico più interessante della lirica: il valore della memoria non può esaurirsi in un compiaciuto indugio su se stessi, la conservazione memoriale non deve essere inerte; piuttosto è funzionale ad uno sforzo d'intendere sempre più profondamente il rapporto del soggetto con l'altro da sé; non serve all'uomo se, diventando oscura dimenticanza della vita, lo disumanizza, senza consentirgli di cogliere il senso più vero -ma non per questo più facile- del proprio trapasso terrestre e d'intendere il rapporto dell'anima, nel tempo ed oltre il tempo, con le occasioni e le radici del destino dell'altro da sé.
    Dicevamo che questa lirica è tratta dala quinta sezione di La bufera e altro, il cui titolo Silvae allude sia all'occasionalità dell'ispirazione che alla varietà di temi e metri, non senza qualche concessione ad accenti più realistici e quotidiani. É quanto si evidenzia già con la prima lirica "Iride" (v. TP p. 247), datata 1943-44 (tra l'altro testo chiave per poter comprendere la religiosità di Montale), elaborata ipotatticamente in ampie strofe, di respiro vagamente classicheggiante. Parlando nelle "Intenzioni (intervista immaginaria)" di questo testo, Montale dichiara:

    In chiave, terribilmente in chiave, tra quelle aggiunte [al libriccino di La Bufera ed altro], c'è "Iride", nella quale la sfinge delle "Nuove Stanze", che aveva lasciato l'oriente per illuminare i ghiacci e le brume del nord, torna a noi come continuatrice e simbolo dell'eterno sacrificio cristiano (v. SP p. 568).

    Siamo in Novembre: Clizia/Iride è ormai negli Stati Uniti:

          Quando di colpo San Martino smotta
          le sue braci e le attizza in fondo al cupo
          fornello dell'Ontario,

    ma bastano pochi elementi -le pigne scoppiettanti sul focolare ed il fumo di una tisana soporifera - a suscitare la fiamma del ricordo di colei che una diversa religione (perché ebrea) ha costretto ad allontanarsi da lui:

          e il Volto insanguinato sul sudario
          che mi divide da te;

    e di fronte alle atrocità della guerra il poeta avverte se come novello Nestoriano smarrito (infatti in LF p. 92 leggiamo: "allude a un divorzio fra Dio e uomo, come Nestorio distingueva in Cristo due persone oltre che due nature"); allora si affida ad Iride che torna a noi come continuatrice e simbolo dell'eterno sacrificio cristiano. Paga lei per tutti, sconta per tutti. E chi la riconosce è il Nestoriano, l'uomo che meglio conosce le affinità che legano Dio alle creature incarnate, non già lo sciocco spiritualista o il rigido e astratto monofisita (v. SP p. 568). Di fronte al naufragio della civiltà occidentale il segno di Iride è questo fuoco di gelo (che richiama il cognome della donna: Brand-Eis appunto), unica forma di preghiera che al poeta è rimasta:

          è quanto di te giunge dal naufragio
          delle mie genti, delle tue, or che un fuoco
          di gelo porta alla memoria il suolo
          ch'è tuo e che non vedesti; e altro rosario
          fra le dita non ho, non altra vampa
          se non questa, di resine e di bacche,
          t'ha investito.

    ***
    Ormai Clizia non ha più i tratti della donna "orientale" che insidiava la sicurezza domestica di Mosca (6) ed Eugenio: ella è la Cristofora, la Iri del Canaan che continua l'opera salvifica del suo Sposo, col quale si identifica:

          Cuore d'altri non è simile al tuo,
          la lince non somiglia al bel soriano
          che apposta l'uccello mosca sull'alloro;
          ma li credi tu eguali se t'avventuri
          fuor dell'ombra del sicomoro
          o è forse quella maschera sul drappo bianco,
          quell'effigie di porpora che t'ha guidata?

          Perché l'opera tua (che della Sua
          è una forma) fiorisse in altre luci
          Iri del Canaan ti dileguasti
          in quel nimbo di vischi e pugnitopi
          che il tuo cuore conduce
          nella notte del mondo, oltre il miraggio
          dei fiori del deserto, tuoi germani.

    Ma il burchio non torna indietro: la nave s'è portata via Iride per sempre, mentre

          il sole di San Martino si stempera, nero.
          Ma se ritorni non sei tu, è mutata (7)
          la tua storia terrena, non attendi
          al traghetto la prua,

          non hai sguardi, né ieri né domani;

          perché l'opera Sua (che nella tua
          si trasforma) dev'esser continuata.;

    ove la conclusione, ribadendo la fedeltà del poeta alla nuova Clizia/Cristofora, tutta compresa nel suo ruolo salvifico, ribadisce l'intimo rapporto tra la creatura privilegiata e la divinità.
    Mi pare utile accostare a questo testo "L'anguilla" (v. TP p. 262), pubblicata per la prima volta nel luglio del 1948, la cui struttura paratattica -chiaramente antinomica a quella della lirica precedente- ben si presta alla dimostrazione del ruolo salvifico di Iride, individuato attraverso una tecnica associativa fortemente sottolineata dall'unico sinuoso periodo (non privo di contorsioni, data la prolessi del complemento oggetto anguilla e la conclusione col predicativo dell'oggetto sorella), ove la serie di apposizioni -sirena, torcia, frusta, freccia d'Amore, anima verde, scintilla, iride breve, gemella- vale a sottolineare il valore allegorico dell'anguilla, simile a Iride, "figura" di una volontà spirituale che si afferma attraverso la concretezza della condizione umana: tant'è che alla donna, proprio per la sua carnalità, è riconosciuta la capacità di tener desta la speranza e la forza creativa fra gli umani.

    Questo vale soprattutto in tempi ove più nessuno è incolpevole per la violenza insozzatrice del trescone hitleriano (persino le vetrine coi giocattoli di guerra e quella del macellaio con i capretti dal muso infiorato di bacche aromatiche alludono allo spirito militarista e all'imminente carneficina): al periodo 1939-1946 appartiene infatti "La primavera hitleriana" (v. TP p. 256), uno dei testi più politicamente impegnati di Montale, che vi rievoca con toni sinistri la visita di Hitler a Firenze nel maggio del 1938, con un'aperta volontà di affrontare il tema storico, di regola sottinteso. Mentre un nugolo di farfalle bianche, simili ad un'effimera nevicata, turbinando attorno agli smorti lampioni e agli argini, piove sull'Arno (comunicando al poeta un senso di gelo), gli scherani, parati in una sorta di golfo mistico (che richiama l'idea dello spazio riservato all'orchestra nei teatri lirici) pavesato (di bandiere con le svastiche) accolgono Hitler, messo infernale, tra urla ed applausi. Ad ossequiarlo ci sono i bottegai, miti carnefici che ancora ignorano il sangue, la cui festante acclamazione si tramuta in sozzo trescone d'ali schiantate, che rende tutti complici, sia pur inconsapevoli, dell'inesorabile prossima rovina. E la sagra cui tutti partecipano, l'acqua che scorre inesorabilmente diventano cifra simbolica dell'indifferenza colpevole cui niente e nessuno possono più sottrarsi, contaminati dalla violenza dell'orda. E la salvezza promessa da Clizia? Tutto per nulla, dunque? L'ultima strofa dichiara la fede del poeta nella funzione salvifica della donna, ormai confusa, nel suo sacrificio per tutti, con l'Amor divino (Altro [...] sole, come a dire che Clizia, presente col suo senhal solare, è chiamata alla sua missione salvifica, a guardare in alto, conservando immutato il suo amore, finché il cieco sole che porta dentro di sé si annulli nell'Altro per la salvezza di tutti, col respiro di un'alba che domani per tutti / si riaffacci [...] ai greti arsi del sud (simbolicamente allusivi all'Europa devastata dalla guerra; v. PM pp.178-180):

          Né quella ch'a veder lo sol si gira....
          DANTE (?) a Giovanni Quirini

          Folta la nuvola bianca delle falene impazzite
          turbina intorno agli scialbi fanali e sulle spallette,
          stende a terra una coltre su cui scricchia
          come su zucchero il piede; l'estate imminente sprigiona
          ora il gelo notturno che capiva
          nelle cave segrete della stagione morta,
          negli orti che da Maiano scavalcano a questi renai.

          Da poco sul corso è passato a volo un messo infernale
          tra un alalà di scherani, un golfo mistico acceso
          e pavesato di croci a uncino l'ha preso e inghiottito,
          si sono chiuse le vetrine, povere
          e inoffensive benché armate anch'esse
          di cannoni e giocattoli di guerra,
          ha sprangato il beccaio che infiorava
          di bacche il muso dei capretti uccisi,
          la sagra dei miti carnefici che ancora ignorano il sangue
          s'è tramutata in un sozzo trescone d'ali schiantate,
          di larve sulle golene, e l'acqua séguita a rodere
          le sponde e più nessuno è incolpevole.

          Tutto per nulla, dunque? - e le candele
          romane, a San Giovanni, che sbiancavano lente
          l'orizzonte, ed i pegni e i lunghi addii
          forti come un battesimo nella lugubre attesa
          dell'orda (ma una gemma rigò l'aria stillando
          sui ghiacci e le riviere dei tuoi lidi
          gli angeli di Tobia, i sette, la semina
          dell'avvenire) e gli eliotropi nati
          dalle tue mani - tutto arso e succhiato
          da un polline che stride come il fuoco
          e ha punte di sinibbio....
          Oh la piagata
          primavera è pur festa se raggela
          in morte questa morte! Guarda ancora
          in alto, Clizia, è la tua sorte, tu
          che il non mutato amor mutata serbi,
          fino a che il cieco sole che in te porti
          si abbàcini nell'Altro e si distrugga
          in Lui, per tutti. Forse le sirene, i rintocchi
          che salutano i mostri nella sera
          della loro tregenda, si confondono già
          col suono che slegato dal cielo, scende, vince -
          col respiro di un'alba che domani per tutti
          si riaffacci, bianca ma senz'ali
          di raccapriccio, ai greti arsi del sud....

    Tuttavia va precisato, ancora una volta, che il suo antinazismo si configurerebbe piuttosto come orrore per una politica che si arroghi "il diritto di invadere il sacro recinto della cultura" e minacci "continuamente i più alti valori dello spirito" (v. EM pp.85-86) che non come condanna di una forza politica determinata. Tant'è che Martelli precisa essere quello di Montale un antitotalitarismo, nel senso di "anticlericalismo, sotto qualunque forma il clericalismo possa manifestarsi".
    Quando, ad esempio, nella primavera del 1949 attraverso l'Italia del Nord veniva portato in giro il simulacro di una Madonna ritenuta miracolosa, provocando una sorta di fanatismo isterico, il fastidio provato da Montale si traduceva in una delle sue liriche più ingiuriosamente polemiche, "Le processioni del 1949" (4° dei Madrigali privati, VI sezione della raccolta; v. TP p.268) annunciata da una lettera (8) a G.F. Contini, ulteriore riprova del ruolo di riscatto della storia assegnato alla Poesia (incarnato da una virtù angelica che non è più di Clizia, ma di Volpe, alias la poetessa Maria Luisa Spaziani), se riesce - sia pur con i mutati toni dell'asprezza e della contrapposizione violenta - ad annullare la vile infezione e corruzione dilagante delle crociate anticomuniste che il clima della guerra fredda sollecitava, mettendo "metaforicamente in fuga i madonnari (i portatori, cioè, dell'immagine), la Vergine (chiamata qui, con espressione blasfema, Cibele) ed i sacerdoti (chiamati a loro volta i Coribanti, gli antichi preti addetti al culto di Cibele".
    Ma è nelle due liriche delle Conclusioni provvisorie che meglio si definisce la posizione ideologica di Montale che, identificando la cultura con il Bene, adibisce le sue energie alla strenua lotta contro tutto ciò che s'impegna ad asservirla ai propri scopi, come appunto la politica, identificata con il Male; e questo soprattutto quando una forza politica tende a trasformarsi in "chiesa", ovvero in una formazione talmente integralista ed esclusiva da inibire la libertà di pensiero.
    La prima delle due liriche -"Piccolo Testamento" (v. TP p. 275)- allude in termini piuttosto espliciti alla catastrofe della civiltà occidentale (cui rimandano i tre fiumi del testo) determinata dalla "guerra fredda" degli anni Cinquanta, caratterizzati dai timori di una catastrofica conflagrazione nucleare, a contrastare la quale non può che valere la stoica accettazione di un destino di eroica fedeltà a se stessi, all'ineluttabilità di quel "male di vivere" dichiarato sin dall'inizio della sua produzione, alla decenza quotidiana trasmessagli da Fadìn (9):

          Questo che a notte balugina
          nella calotta del mio pensiero,
          traccia madreperlacea di lumaca
          o smeriglio di vetro calpestato,
          non è lume di chiesa o d'officina
          che alimenti
          chierico rosso o nero.
          Solo quest'iride posso
          lasciarti a testimonianza
          d'una fede che fu combattuta,
          d'una speranza che bruciò più lenta
          di un duro ceppo nel focolare.
          Conservane la cipria nello specchietto
          quando spenta ogni lampada
          la sardana si farà infernale
          e un ombroso Lucifero scenderà su una prora
          del Tamigi, del Hudson, della Senna
          scuotendo l'ali di bitume semi-
          mozze dalla fatica, a dirti: è l'ora.
          Non è un'eredità, un portafortuna
          che può reggere all'urto dei monsoni
          sul fil di ragno della memoria,
          ma una storia non dura che nella cenere
          e persistenza è solo l'estinzione.
          Giusto era il segno: chi l'ha ravvisato
          non può fallire nel ritrovarti.
          Ognuno riconosce i suoi (10) : l'orgoglio
          non era fuga, l'umiltà non era
          vile, il tenue bagliore strofinato
          laggiù non era quello di un fiammifero.

    Tuttavia solo morendo la vita può ricominciare -persistenza è solo l'estinzione-: la tragedia dell'umanità presente è proprio in questa testimonianza di una speranza aspramente sofferta ma senza approdo (posizione angosciosa, certamente, ma comprensibile alla luce delle esperienze amare delle guerre la cui eredità è in un sostanziale, desolante scetticismo verso ogni "confessione"). E, riconfermata la validità del "segno" rappresentato da Clizia - la fede e la speranza di un tempo -, il poeta ribadisce la tensione morale del suo testamento: per cui il suo orgoglio non fu un isolamento di comodo, una fuga dalle responsabilità etico-politiche; la sua umiltà non fu rinunciataria resa agli eventi; il tenue bagliore dell'elaborazione del suo pensiero, illuminando nel profondo la coscienza, era tutt'altro che effimero (dove l'ironia disincantata si fa più pungente nel raffronto con l'oggetto banale, demistificato proprio nella sua solenne carica etimologica (fiammifero = portatore di fiamma). E si noti, infine, come ancora una volta il poeta delinei il proprio credo in negativo (come nell'Osso "Non chiederci la parola che squadri da ogni lato"), polemizzando non solo contro le due chiese -quella democristiana e quella comunista-, ma anche contro i due blocchi contrapposti degli USA e dell'URSS, "responsabili ai suoi occhi di proporre un modello di civiltà anonima, massificata e meccanizzata. Questo è il segno" per lui "più pericoloso della decadenza e della corruzione della cultura occidentale. Il guaio è, per Montale, che questa cultura è l'unica per lui possibile, ed è senza alternative. Di conseguenza, il declino di questa civiltà, della sua cultura e della sua più alta tradizione lirica [...] viene vissuto, tout court, come fine della storia e della poesia" (v. SM p. 171).
    E poi la seconda lirica, "Il sogno del prigioniero" (v. TP p. 276), dove fra orrore e sarcasmo Montale interpreta la storia come una condizione carceraria, dominata da divinità guerrafondaie, in cui all'uomo non resta che essere vittima o carnefice; i padroni di sempre minacciano la civiltà umana e l'uomo può soltanto sognare la sua liberazione. In proposito Montale stesso dichiara, durante un'intervista rilasciata nel 1960, ora in Quaderni milanesi (11), "[...] Il mio prigioniero può essere un prigioniero politico; ma può essere anche un prigioniero della condizione esistenziale. Ambiguità, in questo caso, necessaria alla poesia".

          Alba e notti qui variano per pochi segni.

          Il zigzag degli storni sui battifredi
          nei giorni di battaglia, mie sole ali,
          un filo d'aria polare,
          l'occhio del capoguardia dallo spioncino,
          crac di noci schiacciate, un oleoso
          sfrigolìo dalle cave, girarrosti
          veri o supposti - ma la paglia è oro,
          la lanterna vinosa è focolare
          se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

          La purga dura da sempre, senza un perché.
          Dicono che chi abiura e sottoscrive
          può salvarsi da questo sterminio d'oche;
          che chi obiurga se stesso, ma tradisce
          e vende carne d'altri, afferra il mestolo
          anzi che terminare nel pâté
          destinato agl'Iddii pestilenziali.

          Tardo di mente, piagato
          dal pungente giaciglio mi sono fuso
          col volo della tarma che la mia suola
          sfarina sull'impiantito,
          coi kimoni cangianti delle luci
          sciorinate all'aurora dei torrioni,
          ho annusato nel vento il bruciaticcio
          dei buccellati dai forni,
          mi son guardato attorno, ho suscitato
          iridi su orizzonti di ragnateli
          e petali sui tralicci delle inferriate,
          mi sono alzato, sono ricaduto
          nel fondo dove il secolo è il minuto -

          e i colpi si ripetono ed i passi,
          e ancora ignoro se sarò al festino
          farcitore o farcito. L'attesa è lunga,
          il mio sogno di te non è finito.

    Di fronte all'eliminazione sistematica degli oppositori (di cui le purghe staliniste sono solo un segno contingente) il vero dramma umano sta nell'incertezza circa la propria capacità di resistenza: la stessa forza magica della poesia può soltanto limitarsi, ormai, alla tenacia dell'attesa, all'attività fantastica del sogno. Da qui, da questa "crisi dell'ipotesi dell'incarnazione e la inconciliabilità fra valore e vita" non si ammette altro che "un'orgogliosa rivendicazione di coerenza individuale. Troppo poco per un poeta come Montale, che aveva puntato ben più in alto. La provvisorietà delle Conclusioni è così solo un preludio al silenzio. Fine del romanzo e fine della poesia rischiano di coincidere: anzi, coincideranno di fatto per quasi un decennio" (v. SM p. 174).
    Infatti la storia della quarta importante raccolta montaliana inizia nel 1962 quando pubblica una plaquette per nozze con cinque poesie, tra cui "Botta e risposta I" che ho già citato. Non che Montale sia restato inattivo: la prosa e il lavoro di critico e traduttore prendono piuttosto il sopravvento sulla sua produzione. É un periodo cruciale per la storia italiana, che vive il boom economico, avviandosi ad entrare nel novero dei paesi industriali a capitalismo maturo, cui conseguono trasformazioni radicali e profonde. "Trovano piena conferma quei sintomi di disagio di fronte al dilagare della civiltà meccanica e massificata che Montale aveva denunciato da sempre e in modo più puntuale ed argomentato dopo la fine delle speranze e delle illusioni dell'immediato dopoguerra" (v. SM p. 195), per esempio nella raccolta che pubblicò nel 1956: le prose di Farfalla di Dinard (v. PR p. 226: La farfallina color zafferano che veniva ogni giorno a trovarmi al caffé, sulla piazza di Dinard [in Bretagna]) infatti, vagamente sorridenti e divertite nella loro elegante essenzialità, forniscono spesso una chiave interpretativa della poesia, di cui altre volte costituiscono insoliti ed affascinanti esiti.

    Perché Satura? Intanto va sottolineato che a fondamento della raccolta troviamo una delle componenti fondamentali del nuovo indirizzo montaliano : la fenomenologia husserliana, risolventesi in un sostanziale atteggiamento critico nei confronti di ogni sapere che pretenda di essere oggettivamente scientifico. Ne consegue una radicale "sospensione del giudizio" - epoché secondo lo scetticismo greco - fino a dichiarare la propria impotenza a fondare una qualunque teoria; il che implica peraltro la definizione dell'uomo in situazione, definito soltanto dal suo puntuale presente (12), nonché il concetto della deformazione della memoria, perché a forza di ri-creare incessantemente il passato lo trasformiamo in un elemento inedito del presente. E la storia? impossibile, come anche la tradizione, la civiltà: il "mondo della vita" è solo un presente indifferenziato, una palta (o melma), un lago fangoso, in cui l'uomo perde inesorabilmente la sua autonomia. Si noti peraltro come il titolo della raccolta, rimandando ad una pluralità di significati tra cui il "satura lanx" (piatto ricolmo di primizie offerto agli dei), risulti ferocemente allusivo al carattere deperibile, consumabile, quasi commestibile che la poesia ha assunto nei nostri tempi. L'opera poetica non può più essere, come per Orazio, un monumentum aere perennius (Ode III, 30), perché il ricordo implicito nel "monumentum" è oggi impossibile; l'unica arte è quella di "consumo": destinata ad essere fruita, usata e gettata. Ma se questo è il messaggio dei tempi moderni, la reazione di Montale non può essere che cupa e disperata. E quando dopo il lungo silenzio riprende a poetare, la sua poesia diventa un "ossimoro permanente", una contraddizione in termini, ovvero una non-poesia. Raggiunge infatti l'effetto voluto di banalizzazione dei valori del mondo attuale attraverso un lessico moderno riferito ai temi tradizionalmente più alti: si veda in proposito nella lirica "Piove" (v. TP p. 345) come l'amara parodia del modello dannunziano (Piove / non sulla favola bella / di lontane stagioni [...] Piove / in assenza di Ermione / se Dio vuole) si traduca in polemica dissacrazione della contemporaneità (É uno stillicidio / senza tonfi / di motorette o strilli / di bambini), con effetti ferocemente banalizzanti e persino autoironici (piove sugli ossi di seppia come pure sulla greppia nazionale, la corruzione di una classe politica tangentista), fino alla riduzione dell'uomo a scimmia (primate a due piedi), nonché all'accostamento dei chierici rossi e neri allo sbeffeggiamento dei "works in progress" che diventano works in regress (satira del "progresso della contestazione"), della cartella delle tasse all'epistemologia, dell'uomo indiato (ovvero dell'uomo che l'esistenzialismo fenomenologico ha reso autonomo, riducendone il senso della vita all'esperienza terrena) al cielo ominizzato (ovvero l'idea di Dio avvilita entro limiti umani).
    E notevole appare anche il doppio registro di lettura, se nei cipressi malati / del cimitero c'è un rimando alle notizie di cronaca della primavera del 1969, ma anche un richiamo ai "Sepolcri" foscoliani (come ci suggerisce il Martelli) qui piegato a referente antinomico: come dire che, in piena era di consumismo, se i cipressi che vegliano sulle tombe si ammalano, vuol dire che hanno perduto la loro funzione; ed allora deve essere abolita ogni memoria, ogni tradizione deve essere svuotata di senso.
    Quindi, per concludere, mi sembra che un poeta come Montale non possa essere considerato, come si suol dire, "à la page": persino la sua battuta alla notizia del conferimento del Nobel (v. BP p. 145: Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene invece un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch'io?) lo testimonia; l'orrore per l'arte ridotta alla fruizione dell'"usa e getta", al solo attimo della fruizione visiva e sonora, il fastidio per l'intasamento snervante ed inutile della civiltà consumistica ne fanno un intellettuale vagamente déraciné rispetto ai nostri tempi:

          Anch'io sono incrostato fino al collo se il mio
          stato civile fu dubbio fin dall'inizio.
          Non torba m'ha assediato, ma gli eventi
          di una realtà incredibile e mai creduta

    dice in "L'alluvione ha sommerso il pack dei mobili" (v. Satura, Xenion II, 14, vv. 14-17; TP p. 318). Come dire: l'alluvione-metafora della cultura di massa dominante a partire dagli anni Cinquanta minaccia di travolgere la cultura raffinata e non provinciale (di cui i libri citati nel testo - Dino Campana, Valéry, Ezra Pound - sono parte integrante); e nella "perdita d'identità" di quella cultura Montale, che ha contribuito a diffonderla, vede drammaticamente simboleggiata la perdita anche della propria identità.
    Nella sua tentata resistenza il poeta potrebbe da un lato apparirci più propenso all'idea classica della cultura come ricreazione spirituale e civile dell'uomo piuttosto che a quella dell'industria del tempo libero; tuttavia occorre sottolineare come egli non sia necessariamente attaccato ad una tradizione sterilmente laudatrice "temporis acti", il che ben si legge nel puntuale autoritratto che di sé fornisce in "Soliloquio" del 15.XII.1961 (v. AF p.151: "Eppure, malgrado tutto questo non vorrei confondermi con i balordi laudatori del passato che ....."); e se la renitenza ad integrarsi nel sistema diventa il segno distintivo della sua personalità, fino a fargli scrivere in "Ma c'è chi" (13):

            Potius mori quam foedari
            è l'illibato senso
            del vivere che trasmetti
            in messaggi cifrati.
            Ma c'è chi non capisce
            e preferisce il mondo
            così com'è: immerso nel pattume.,

    la scelta di non rifiutare la vita con tutte le sue storture ed importune piaghe rimane, a mio avviso, il suo messaggio più significativo: quello che leggiamo nella risposta del 19 febbraio 1973 a chi gli chiede come possa dire di amare il suo tempo:

    Ebbene, io amo l'età in cui sono nato perché preferisco vivere sul filo della corrente anziché vegetare nella palude di un'età senza tempo: quella che, certo per nostro errore, ci appare l'età dei nostri antenati. Preferisco vivere in un'età che conosce le sue piaghe piuttosto che nella sterminata stagione in cui le piaghe erano coperte dalle bende dell'ipocrisia. Dopo tutto, e senza negare le infinite storture che ci sommergono, si ha l'impressione che oggi gli uomini abbiano aperto gli occhi come non mai prima, neppure nel tempo di Pericle. Ma i loro occhi aperti ancora non vedono nulla. Forse si dovrà attendere, a lungo, e per me e per tutti noi vivi, il tempo si fa corto (v. AF p.263: "Sul filo della corrente" del 19.II.1973).

    Gadda diceva, il 9 agosto del '32, a proposito della poesia montaliana: "«Io soffro» esclama taluno; e taluno invece, e così appunto il Montale, o non esclama nulla, od eguaglia miele e assenzio nella stupefatta anestesia ch'è al di là da ogni termine del dolore."
    Quanto, in definitiva, leggiamo in una delle sue ultime poesie, "Oggi è di moda" (vd. DP p.22):

          Ogni giorno c'è una rivoluzione
          di stagioni, di popoli, di idee.
          Sine die è rimandata ogni decisione.
          Nulla è più stabile, se non qualche canzone
          ripetuta sotto tutte le bandiere.
          Quanto si salverà, da questo nubifragio,
          non si sa. Forse dopo tanto spreco
          anche la parola finirà in un botro.
          A noi rimane la speranza che qualche
          anacoreta distilli resine dorate
          dai tronchi marcescenti del sapere.


NOTE

    Nota 1
    Infatti Gianfranco Contini, che all'epoca insegnava in una Università svizzera, portò a Lugano 15 poesie di Finisterre, scritte da Montale tra il 1940 ed il 1942, facendone ivi pubblicare 150 copie da Pino Bernasconi nella primavera del 1943. Montale vi aveva apposto i due seguenti versi di Agrippa d'Aubigné: Les princes n'ont point d'yeux pour voir ces grand's merveilles, / Leurs mains ne servent plus qùà nous persécuter.

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    Nota 2
    Il nome è un "senhal" derivato da un sonetto dantesco (di dubbia paternità) di corrispondenza con Giovanni Quirini ove l'autore, dichiarando il suo amore per una "donna dispietata e disdegnosa", si paragona a Clizia, ovvero a "quella ch'a veder lo sol si gira / e 'l non mutato amor mutata serba". Simbolo di una strenua dedizione d'amore, Montale chiama con questo nome, secondo il modello del rapporto amoroso tradizionale (Dante e Beatrice, Petrarca e Laura), Irma Brandeis, un'ebrea americana, allieva di Ch. Singleton, studiosa di Dante e dei mistici medievali, conosciuta al Vieussieux di Firenze nella primavera del 1933. Il poeta provò per lei una grande comunione spirituale e sentimentale, almeno fino al 1938, allorchè le leggi razziali la costrinsero a tornare negli U.S.A. Clizia è l'"Angelo della visitazione", "dea da nube": infatti Montale ne fa immagine e simbolo di Dio (per il fatto di poter tenere gli occhi fissi al sole); tant'è che, pur vivendo lontana dal poeta, di quando in quando gli si rivela, fino a diventare "Cristofora" oppure "Visiting Angel", donna-angelo che si manifesta attraverso attraverso elementi riferentisi alla sua fisionomia: ad esempio la frangia dei capelli (allusione alla piuma, l'ala); e quando il messaggio di cui è foriera è terribilmente oscuro, ella si trasforma in Iride (Iris = Irma), come nella raccolta La bufera e altro.

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    Nota 3
    Fede feroce ovvero l'ideologia nazista, fanatica e violenta come una religione feroce: la citazione è da "Dora Markus", seconda parte (che risale al 1938), vv.57-58, poesia compresa nella prima sezione di Le occasioni. Vd. MM, p.41, ove leggiamo le parole di Montale in risposta a Guarnieri: La fede nazista. Dora è già diventata Gerti. Lungo i margini del foglio, forse continuando questa risposta, M. scrive: In Dora Markus I, Dora non è ancora Gerti, non risulta ebrea. Non ho mai conosciuto Dora, nella seconda parte è presente solo Gerti, ebrea.

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    Nota 4
    Carpi (v. MBS p.35 sgg.) ci fa notare come accanto alle "dichiarazioni di generico utopismo pacifista ed ottimistico" (quando l'A. scrive "Non <<ignorò>> l'Europa come fanno oggi (a parole) certi apostoli del panslavismo per i quali tutto è da rifare nella nostra civiltà; rivendicò al suo paese il diritto di presentarsi, col suo volto originale, con le sue intatte possibilità, in quel gran concerto di liberi popoli civili, che è la suprema speranza, e per molti la grande illusione, di domani"), Montale non fece alcun cenno sulle condizioni oggettive in cui operò Gandhi, il cui necrologio diviene un pretesto per un'esaltazione di valori "occidentali" in funzione antileninista.

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    Nota 5
    v. MM p.56: Il vello d'oro è il qualsiasi sudario che quando si alza scopre i ricordi : appunto il velo che protegge, nascondendolo, il passato; ....... Magnolia, cane, serve ecc. tutti ricordi reali.

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    Nota 6
    Con questo -Mosca- nome Montale affettuosamente chiamò sua moglie, Drusilla Tanzi, conosciuta a Firenze nel 1927, con la quale visse dal 1939 al 1963 (morì il 20 ottobre per i postumi di una caduta).

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    Nota 7
    a proposito di "è mutata / la tua storia terrena" scrive Luperini in SM pp.149-151: << [...] Anzitutto viene sottoposta a un processo di revisione l'ipotesi religiosa (in senso cristiano e latamente culturale, non certo confessionale) che Montale aveva elaborato. [.....] la donna-angelo svolge un'opera di salvezza e di sacrificio cristiano per l'intera umanità; e tuttavia - questo è il punto - può compierla solo a patto di una disincarnazione, e cioè del suo passaggio nell'oltrecielo e nell'oltretempo. [...] ormai l'opera terrena di Iride è solo un aspetto di quella divina, cosicché l'accento, che prima batteva "sull'opera tua", sull'intervento concreto della donna, ora si sposta sull'"opera Sua" e cioè nell'ambito metafisico della divinità, di cui l'operato di lei è una semplice manifestazione. Il martellamento delle negazioni ("non hai sguardi, né ieri né domani") esprime, nel solo modo ormai possibile, questo disincarnamento di Iride, il mutamento di significato della sua "storia terrena". [...] Iride/Clizia passa al di là del tempo e dello spazio umani perché un tempo ed un futuro siano ancora possibili per l'umanità>>.

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    Nota 8
    La lettera, datata 7.VI.1949, diceva ad un certo punto: Per passare ad altro ti dirò che ho scritto una poesia contro la madonna pellegrina (recente mascherata italiana) che non ti posso ancora trascrivere perché non ne ho qui copia e devo ancora correggerla (v. EM p. 87).

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    Nota 9
    La bufera e altro. Intermezzo: "Visita a Fadìn", in TP, p.225-226: "[....] E ora dire che non ci sei più è dire solo che sei entrato in un ordine diverso, per quanto quello in cui ci muoviamo noi ritardatari, così pazzesco com'è, sembri alla nostra ragione l'unico in cui la divinità può svolgere i propri attributi, riconoscersi e saggiarsi nei limiti di un assunto di cui ignoriamo il significato. (Anch'essa, dunque, avrebbe bisogno di noi? Se è una bestemmia, ahimé, non è neppure la nostra peggiore). Essere sempre tra i primi e sapere, ecco ciò che conta, anche se il perché della rappresentazione ci sfugge. Chi ha avuto da te quest'alta lezione di decenza quotidiana (la più difficile delle virtù) può attendere senza fretta il libro delle tue reliquie. La tua parola non era forse di quelle che si scrivono."

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    Nota 10
    Ognuno riconosce i suoi: parafrasi della frase attribuita ad Arnaldo Almarico, abate di Citeaux, nell'assalto della città di Béziers (1209) durante la crociata degli Albigesi: a chi gli faceva presente che la strage avrebbe colpito, oltre agli eretici, anche degli innocenti, avrebbe risposto: «Uccideteli tutti. Iddio riconoscerà i suoi». M. qui ci vuol dire che ognuno è in condizioni di comprendere chi appartenga, per natura o misteriosa elezione, al proprio ordine spirituale: a patto, però, che la fede di cui egli parla non venga confusa con quella propriamente religiosa, perché è piuttosto quella medesima dell'"Anguilla", cui l'iride del v.7 chiaramente allude.

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    Nota 11
    Quaderni Milanesi: L'engagement del poeta è totale, e il poeta, in quanto uomo, può anche (ma non deve necessariamente) aderire a un partito politico; ma il poeta non è certo obbligato a scrivere versi <<politici>>. Può, anzi deve farlo, se l'ispirazione glielo detta. Ma l'impegno sociale non si svolge in una sola direzione obbligata. Non sono esistiti scrittori (poeti) rivoluzionari che hanno creduto di professare idee reazionarie? (Baudelaire, Dostoiewskji, per esempio). L'arte non si fa con le opinioni, sebbene esistano casi nei quali le opinioni si fanno sangue, e allora entrano anch'esse nel giro dell'arte. Qualche rara volta è capitato anche a me: nel mio Sogno del prigioniero. [...]

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    Nota 12
    A proposito dell'uomo definito dal suo puntuale presente, leggiamo in "Corriere della sera" dell'11.I.1962: Non si può parlare dell'individuo astraendo dalle condizioni che lo rendono possibile. Non l'individuo, dunque, ma questo individuo, in questo luogo, in questa situazione. Non dobbiamo chiedere altro, ogni altra domanda non ha senso filosofico. E sia pure: ma come potrà questo singolo, questo individuo emergente dal nulla sulla cresta di un veloce presente che lo scaglia verso un ignoto futuro, come potrà questo singolo riconoscere gli altri singoli, corrispondere con essi e garantirsi della loro autenticità?

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    Nota 13
    "Ma c'è chi" del 7.V.1973) (v. DP p.11). Il primo verso è un motto che la tradizione attribuisce al cardinale Giacomo di Portogallo, morto a soli 26 anni a Firenze per una bizzarra malattia dovuta all'ostinata continenza; Montale può averne letto l'epitaffio inciso sul sepolcro, opera di Antonio Rossellino, nella cappella di San Giacomo della chiesa di San Miniato al Monte, che dice: "Regia stirps, Jacobus nomen, Lusitana propago, / insignis forma, summa pudicitia, / Cardineus titulus, morum nitor, optima vita. / Ista fuere mihi; mors juvenem rapuit. / Ne se pollueret maluit iste mori. / Vixit a. XXV, m. XI: d. X: obiit an. Sal. MCCCCLIX."

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Betulla BIFFONI ARCI
(Conversazione tenuta all'Istituto Magistrale "C. Percoto"
di Udine per la Società Dante Alighieri il 30 marzo 1995)