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Commento
a "Forse un mattino andando in un'aria di vetro"
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la poesia
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Forse
un mattino è
un «osso di seppia» che si distacca dagli altri non tanto
perché è una poesia «narrativa» (la tipica poesia
narrativa di Montale è La folata che alzò l'aroma
dove il soggetto dell'azione è la verifica dell'assenza d'una
persona, quindi il movimento narrativo sta nel contrapporre un soggetto
non umano presente a un oggetto umano assente), ma perché è
priva di oggetti, di emblemi naturali, priva di un paesaggio determinato,
è una poesia d'immaginazione e di pensiero astratti, come raramente
in Montale. Ma m'accorgo che (a distanziarla ancor più dalle
altre) la mia memoria aveva apportato una correzione alla poesia ;
il sesto verso per me comincia: «alberi case strade» oppure
«uomini case strade» e non «alberi case colli»
come solo ora rileggendo il testo dopo trentacinque anni vedo che dice.
Cioè io sostituendo «strade» a «colli»
ambiento l'azione su uno scenario decisamente cittadino, forse perché
la parola «colli» mi suona troppo vaga, forse perché
la presenza degli «uomini che non si voltano» mi suggerisce
un viavai di passanti; insomma la scomparsa del mondo la vedo come scomparsa
della città piuttosto che come scomparsa della natura. (M'accorgo
ora che la mia memoria non faceva che stingere su questa poesia l'immagine
del verso «Ciò non vede la gente nell'affollato corso»
che appare quattro pagine prima, in un componimento gemello a questo).
Un'aria
di vetro
A ben vedere, la molla che scatena il «miracolo»
è l'elemento naturale, cioè atmosferico, l'asciutta cristallina
trasparenza dell'aria invernale che rende le cose tanto nitide da creare
un effetto d'irrealtà, quasi che l'alone di foschia che abitualmente
sfuma il paesaggio (qui torno ad ambientare la poesia di Montale, del
primo Montale, nel consueto paesaggio costiero, assimilandolo a quello
della mia memoria) s'identifichi con lo spessore e peso dell'esistere.
No, non ci siamo ancora: è la concretezza di quest'aria invisibile,
che appunto pare vetro, con una sua solidità autosufficiente,
che finisce per imporsi sul mondo e farlo sparire. L'aria-vetro è
il vero elemento di questa poesia, e la città mentale in cui
la situo è una città di vetro, che si fa diafana fino
a che scompare. E la determinatezza del medio che sbocca nel senso del
nulla (mentre in Leopardi è l'indeterminatezza che raggiunge
lo stesso effetto). O per esser più precisi, c'è un senso
di sospensione, dal «Forse un mattino» iniziale, che non
è indeterminatezza ma attento equilibrio, «andando in
un'aria di vetro», quasi camminando nell'aria, in aria, nel fragile
vetro dell'aria, nella luce fredda del mattino, fino a che non ci s'accorge
d'essere sospesi nel vuoto.
Il senso di sospensione e insieme di concretezza continua nel secondo
verso per via dell'oscillante andatura ritmica, con quel «compìrsi»
che il lettore è continuamente tentato di correggere in «compiersi»,
ogni volta poi accorgendosi che tutto il verso gravita proprio su quel
prosastico «compirsi» che smorza ogni enfasi nella constatazione
del «miracolo». È un verso a cui il mio orecchio
è sempre stato affezionato proprio perché nella dizione
(mentale) va aiutato un pò, sembra che abbia un piede di troppo,
che invece non è affatto di troppo, ma la mia memoria spesso
tende a scaricare qualche sillaba. La zona del verso più labile
mnemonicamente è il «rivolgendomi» che alle volte mi
viene da abbreviare in «voltandomi» o «girandomi»,
sbilanciando così tutta la successione degli accenti.
Tra le ragioni per cui una poesia s'impone alla memoria (prima chiedendo
d'essere mandata a mente, poi facendosi ricordare) le peculiarità
metriche hanno una parte decisiva. In Montale m'ha sempre attratto l'uso
della rima: le parole piane che rimano con le sdrucciole, le rime imperfette,
le rime in posizioni insolite come Il saliscendi bianco e nero dei
(balestrucci dal palo) che rima con dove più non sei.
La sorpresa della rima non é solo fonetica: Montale è
uno dei rari poeti che conoscono il segreto d'usare la rima per abbassare
il tono, non per alzarlo, con effetti inconfondibili sul significato.
Qui, il miracolo che chiude il secondo verso viene ridimensionato
dalla rima con ubriaco due versi dopo, e tutta la quartina resta
come in bilico, con una vibrazione sgomenta.
Il «miracolo» è il tema montaliano primo e mai smentito
della «maglia rotta nella rete» , «l'anello che non
tiene» , ma qui è una delle poche volte in cui la verità
altra che il poeta presenta al di là della compatta muraglia
del mondo empirico si rivela in una esperienza definibile. Potremmo
dire che si tratta né più né meno che della irrealtà
del mondo, se questa definizione non rischiasse di sfumare nel generico
qualcosa che ci viene riferito in termini precisi. L'irrealtà
del mondo è il fondamento di religioni filosofie letterature
soprattutto orientali, ma questa poesia si muove in un altro orizzonte
gnoseologico di nitidezza e trasparenza, come «in un'aria di vetro»
mentale.
Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione ha pagine
molto belle sui casi in cui l'esperienza soggettiva dello spazio si
separa dall'esperienza del mondo oggettivo (nel buio della notte, nel
sogno, sotto l'influsso della droga, nella schizofrenia, etc.). Questa
poesia potrebbe figurare nell'esemplificazione di Merleau-Ponty: lo
spazio si distingue dal mondo e s'impone in quanto tale, vuoto e senza
limiti. La scoperta è salutata dal poeta con favore, come «miracolo»,
come acquisizione di verità contrapposta all'«inganno
consueto», ma anche sofferta come vertigine spaventosa: «con
un terrore di ubriaco». Neanche «l'aria di vetro»
sostiene più i passi dell'uomo; l'avvio librato dell'«andando»,
dopo il rapido volteggio, si risolve in un barcollare senza più
punti di riferimento.
Tra
gli uomini che non si voltano
Il «di gitto» che chiude il primo
verso della seconda quartina circoscrive l'esperienza del nulla nei
termini temporali d'un istante. Riprende il movimento dell'andare all'interno
d'un paesaggio solido ma ora come sfuggente; ci accorgiamo che il poeta
non fa che seguire una delle tante linee vettoriali lungo le quali si
muovono gli altri uomini presenti in questo spazio, «gli uomini
che non si voltano»; è dunque su un molteplice movimento
rettilineo e uniforme che si chiude la poesia.
Resta il dubbio se questi altri uomini fossero spariti anche loro durante
l'istante in cui il mondo era sparito. Tra gli oggetti che tornano ad
«accamparsi» ci sono gli alberi ma non gli uomini (le oscillazioni
della mia memoria portano a esiti filosofici differenti), quindi gli
uomini potrebbero essere rimasti lí; la sparizione del mondo,
così come resta esterna all'io del poeta, così potrebbe
risparmiare ogni altro soggetto dell'esperienza e del giudizio. Il vuoto
fondamentale é costellato di monadi, popolato di tanti io puntiformi
che se si voltasseró scoprirebbero l'inganno, ma che continuano
ad apparirci come schiene in movimento, sicure della solidità
della loro traiettoria. Potremmo vedere qui la situazione inversa da
quella, per esempio, di Vento e bandiere dove la labilità é
tutta dalla parte della presenza umana mentre «Il mondo esiste
..» , nel tempo irripetibile. Qui invece solo la presenza umana
persiste nel venir meno del mondo e delle sue ragioni, presenza come
soggettività disperata perchè o vittima d'un inganno o
depositaria del segreto del nulla.
...Il
vuoto dietro di me
La mia lettura di Forse un mattino si può
così considerare conclusa. Ma essa ha messo in moto dentro di
me una serie di riflessioni sulla percezione visiva e l'appropriazione
dello spazio. Una poesia vive anche per il potere d'irradiare ipotesi
divagazioni associazioni d'idee in territori lontani, o meglio di richiamare
e agganciare a se idee di varia provenienza, organizzandole in una mobile
rete di riferimenti e rifrazioni, come attraverso un cristallo.
Il «vuoto» e il «nulla» sono «alle mie spalle»,
«dietro di me». Il punto fondamentale del poemetto è
questo. Non è una indeterminata sensazione di dissoluzione: è
la costruzione d'un modello conoscitivo che non è facile da smentire
e che può coesistere in noi con altri modelli più o meno
empirici. L'ipotesi può essere enunciata in termini molto semplici
e rigorosi: data la bipartizione dello spazio che ci circonda in un
campo visuale davanti ai nostri occhi e un campo invisibile alle nostre
spalle, si definisce il primo come schermo d'inganni e il secondo come
un vuoto che è la vera sostanza del mondo.
Sarebbe legittimo aspettarsi che il poeta, una volta constatato che
dietro di lui c'è il vuoto, estendesse questa scoperta anche
nelle altre direzioni; ma nel testo non c'è nulla che giustifichi
questa generalizzazione, mentre il modello dello spazio bipartito non
viene mai smentito dal testo, anzi è affermato dalla ridondanza
del terzo verso: «il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro-di
me». Durante la mia frequentazione puramente mnemonica del poemetto,
questa ridondanza alle volte mi causava delle perplessità, e
allora tentavo una variante: «il nulla a me dinanzi, il vuoto
dietro-di me»; cioè il poeta si volta, vede il vuoto, torna
a girare su se stesso e il vuoto s'è esteso da tutte le parti.
Ma riflettendo capivo che qualcosa della pregnanza poetica andava perduta
se la scoperta del vuoto non era localizzata in quel «dietro».
La divisione dello spazio in un campo anteriore e in un campo posteriore
non è soltanto una delle più elementari operazioni umane
sulle categorie. È un dato di partenza comune a tutti gli animali,
che comincia assai presto nella scala biologica, da quando esistono
esseri viventi che si sviluppano non più secondo una simmetria
raggiata ma secondo uno schema bipolare, localizzando in un'estremità
del corpo gli organi di relazione col mondo esterno: una bocca e alcune
terminazioni nervose di cui alcune diventeranno apparati visivi. Da
quel momento il mondo s'identifica col campo anteriore, a cui è
complementare una zona d'inconoscibilità, di non-mondo, di nulla,
retrostante all'osservatore. Spostandosi e sommando i campi visuali
successivi, l'essere vivente riesce a costruirsi un mondo circolare
completo e coerente, ma si tratta pur sempre di un modello induttivo
le cui verifiche non saranno mai soddisfacenti.
L'uomo
ha sempre sofferto della mancanza d'un occhio sulla nuca, e il suo atteggiamento
conoscitivo non può che essere problematico perché egli
non può essere mai sicuro di cosa c'è alle sue spalle,
cioè non può verificare se il mondo continua tra i punti
estremi che riesce a vedere storcendo le pupille in fuori a sinistra
e a destra. Se non è immobilizzato può girare il collo
e tutta la persona, e avere una conferma che il mondo c'è anche
lì, ma questa sarà anche la conferma che ciò che
egli ha di fronte è sempre il suo campo visuale, il quale si
estende per l'ampiezza di tot gradi e non di più, mentre alle
sue spalle c'è sempre un arco complementare in cui in quel momento
il mondo potrebbe non esserci. Insomma, ruotiamo su noi stessi spingendo
davanti ai nostri occhi il nostro campo visuale e non riusciamo mai
a vedere com'è lo spazio in cui il nostro campo visuale non arriva.
Il protagonista della poesia di Montale riesce, per una combinazione
di fattori oggettivi (aria di vetro, arila) e soggettivi (ricettività
a un miracolo gnoseoIogico) a voltarsi tanto in fretta da arrivare,
diciamo, dove il suo campo visuale non ha ancora occupato lo spazio:
e vede il nulla, il vuoto.
La stessa problematica, in positivo (o in negativo, insomma con segno
cambiato) la ritrovo in una leggenda dei boscaioli del Wisconsin e del
Minnesota riportata da Borges nella sua Zoologia fantastica . C'è
un animale che si chiama hide-behind e che sta sempre alle tue spalle,
ti segue dappertutto, nella foresta, quando vai per legna; ti volti
ma per quanto tu sia svelto lo hide-behind è più svelto
ancora e si è già spostato dietro di te; non saprai mai
com'è fatto ma è sempre lì. Borges non cita le
sue fonti e può tarsi che questa leggenda se la sia inventata
lui; ma ciò non toglierebbe nulla alla sua forza d'ipotesi che
direi genetica, categoriale. Potremmo dire che l'uomo di Montale è
quello che è riuscito a voltarsi e a vedere com'è fatto
lo hide-behind: ed è più spaventoso di qualsiasi animale,
è il nulla.
L'inganno consueto
Continuo con le divagazioni a ruota
libera. Si può obiettare che tutto questo discorso si situa prima
d'una fondamentale rivoluzione antropologica del nostro secolo: I'adozione
dello specchietto retrovisore delle auto. L'uomo motorizzato dovrebbe
essere garantito dall'esistenza del mondo dietro di lui, in quanto è
munito d'un occhio che guarda indietro. Parlo dello specchietto delle
auto e non dello specchio in genere, perché nello specchio il
mondo alle nostre spalle è visto come contorno e complemento
alla nostra persona. Ciò che Io specchio conferma è la
presenza del soggetto osservante, di cui il mondo è uno sfondo
accessorio. È un'operazione d'oggettivazione dell'io quella che
lo specchio provoca, col pericolo incombente, che il mito di Narciso
sempre ci ricorda, dell'annegamento nell'io e conseguente perdita dell'io
e del mondo. Invece, il grande avvenimento del nostro secolo è
l'uso continuato d'uno specchio studiato in modo da escludere l'io dalla
visione. L'uomo automobilista può essere considerato una specie
biologicamente nuova per via dello specchietto più ancora che
per via dell'automobile stessa, perché i suoi occhi fissano una
strada che s'accorcia davanti a lui e s'allunga dietro di lui, cioè
può comprendere in un solo sguardo due campi visivi contrapposti
senza l'ingombro dell'immagine di se stesso, come se egli fosse solo
un occhio sospeso sulla totalità del mondo.
Ma, a ben vedere, l'ipotesi di Forse un mattino non viene scalfita a
questa rivoluzione della tecnica percettiva. Se l'«inganno consueto»
è tutto ciò che abbiamo davanti, questo inganno s'estende
a quella porzione del campo anteriore che, per essere incorniciata nello
specchietto, pretende di rappresentare il campo posteriore. Anche se
l'io di Forse un mattino stesse guidando in un'aria di vetro e si voltasse
nelle stesse condizioni di ricettività vedrebbe al di là
del vetro posteriore della macchina non il paesaggio che andava allontanandosi
nello specchietto, con le strisce bianche sull'asfalto, il tratto di
strada appena percorso, le macchine che ha creduto di sorpassare, ma
una voragine vuota senza limiti.
Del resto, negli specchi di Montale,-come Silvio D'Arco Avalle ha dimostrato
per Gli orecchini (e per Vasca e altri specchi d'acqua)-le immagini
non si riflettono ma affiorano «di giù», vengono
incontro all'osservatore.
In realtà, l'immagine che vediamo non è qualcosa che l'occhio
registra né qualcosa che ha sede nell'occhio: è qualcosa
che avviene interamente nel cervello,su stimoli trasmessi dai nervi
ottici ma che solo in una zona del cervello acquista una forma e un
senso. È quella zona lo «schermo» in cui s'accampano
le immagini, e se riesco, rivolgendomi, voltando me stesso dentro di
me, a vedere al di là di quella zona del mio cervello, cioè
a comprendere il mondo com'è quando la mia percezione non gli
attribuisce colore e forma di alberi case colli, brancolerò in
una oscurità senza dimensioni né soggetti, attraversata
da un pulviscolo di vibrazioni fredde e informi» ombre su un radar
mal sintonizzato.
Come su uno schermo
La ricostruzione del mondo avviene«come
su uno schermo» e qui la metafora non può che richiamare
il cinema. La nostra tradizione poetica ha abitualmente usato la parola
«schermo» nel significato di «riparo - occultamento»
o di «diaframma», e se volessimo azzardarci ad affermare
che questa è la prima volta che un poeta italiano usa «schermo»
nel senso di «superficie su cui si proiettano immagini»,
credo che il rischio d'errore non sarebbe molto alto. Questa poesia
(databile tra il 1921 e il 1925) appartiene chiaramente all'era del
cinema, in cui il mondo corre davanti a noi come ombre d'una pellicola,
alberi case colli si stendono su una tela di fondo bidimensionale, la
rapidità del loro apparire («di gitto») e l'enumerazione
evocano una successione d'immagini in movimento. Che siano immagini
proiettate non è detto, il loro «accamparsi» (mettersi
in campo, occupare un campo, ecco il campo visivo chiamato direttamente
in causa) potrebbe anche non rimandare a una fonte o matrice dell'immagine,
scaturire direttamente dallo schermo (come abbiamo visto avvenire dallo
specchio), ma anche l'illusione dello spettatore al cinema è
che le immagini vengano dallo schermo. L'illusione del mondo veniva
tradizionalmente resa da poeti e drammaturghi con metafore teatrali;
il nostro secolo sostituisce al mondo come teatro il mondo come cinematografo,
vorticare d'immagini su una tela bianca.
Col mio segreto
Due rapidità distinte attraversano il poemetto:
quella della mente che intuisce e quella del mondo che scorre. Capire
è tutta questione d'essere veloci, rivolgersi tutt'a un tratto
per sorprendere lo hide-behind, è una giravolta su se stessi
vertiginosa ed è in quella vertigine la conoscenza. Il mondo
empirico invece è il consueto succedersi d'immagini sullo schermo,
inganno ottico come il cinema, dove la velocità dei fotogrammi
ti convince della continuità e della permanenza. C'è un
terzo ritmo che trionfa sui due ed è quello della meditazione,
l'andatura assorta e sospesa nell'aria del mattino, il silenzio in cui
si custodisce il segreto carpito nel fulmineo moto intuitivo. Un'analogia
sostanziale unisce questo «andare zitto» al nulla, al vuoto
che sappiamo essere origine e fine del tutto, e all'«aria di vetro,-arida»
che ne è la parvenza esteriore meno ingannevole. Apparentemente
questa andatura non si differenzia da quella degli «uomini che
non si voltano», i quali hanno forse anche loro, ognuno a suo
modo, capito, e tra i quali il poeta finisce per confondersi. Ed è
questo terzo ritmo, che riprende con passo più grave le note
lievi dell'inizio, a dare il suo suggello alla poesia.

(I.
Calvino, «Forse un mattino andando», in AA.VV.
Letture montaliane in occasione dell'80° compleanno del poeta,
Genova, Bozzi, 1977, pp. 38-45)
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