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La produzione letteraria ![]() L'esordio di Ossi di seppia (1925) presenta insomma una cifra poetica già perfettamente matura e inconfondibile, non dipendente da alcuna scuola, e libro strettamente connessa a una visione del mondo negativa che considera l'esistenza dell'individuo una sorta di soffocante carcere chiuso da "muri", da "reti", da "catene", che impediscono di coglierne il senso più' profondo e autentico. Compito della poesia sarebbe proprio quello di individuare "l'anello che non tiene", "la maglia rotta nella rete", per fuggire oltre, scavalcare la "muraglia" e attingere finalmente a qualche frammento di verità", che di tanto in tanto si lascia intravedere, magari attraverso un oggetto qualunque, o un barbaglio di luce, o l'arrivo di un temporale: tutti fantasmi che per un attimo sembrano annunciare una salvezza, una soluzione di continuità nell'esistenza. Ma l'individuo non ha la forza né la prontezza per afferrare quell'attimo salvifico: tenuto fermo da "viscide radici", non può che praticare l'estraneità e l'immobilità, riconoscendo la negatività della propria natura ("noi, della razza /di chi rimane a terra") e dismettendo ogni speranza di mutamento ("E l'ora che si salva solo la barca in panna"). La poesia degli Ossi di seppia si muove così tra effimere illuminazioni e cupi fallimenti, ed è affidata di preferenza a oggetti che acquistano in tal modo un forte rilievo simbolico: oggetti quali le leggerissime cartilagini che danno il titolo alla raccolta, dilavate dall'acqua marina e disseccate dal sole, allusive di una condizione esistenziale condannata a esprimersi attraverso "qualche storta sillaba e secca come un ramo" e capace soltanto di pronunciarsi su "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". A questi oggetti si contrappongono, labili, cangianti e appena avvertibili, i fantasmi: la "folata che alzò l'amaro aroma I del mare", il "falco alto levato", "l'albero di nuvole", "il ritornello / di castagnette", il "fischio del rimorchiatore"; tutte presenze istantanee, destinate a bruciare in un attimo il loro potenziale di salvezza e la loro carica di verità profonda. E tale connaturata simbolicità dell'oggetto relega in un ruolo defilato e periferico l'io poetico. E proprio tale marginalità induce Montale a "torcere il collo all'eloquenza della nostra vecchia lingua aulica": non si tratta di un rifiuto globale della tradizione dei "poeti laureati", tradizione che del resto nutre abbondantemente il lessico della sua poesia, quanto di uno spostamento di prospettiva: il soggetto, non essendo più' in primo piano, rinuncia a ogni eloquenza amplificatrice e narcisistica, e sceglie di dare rilievo, con un dettato secco e asciutto, agli oggetti, i quali divengono simboli sia della condizione del soggetto stesso, sia del mondo esterno. La concezione del mondo e della poesia finora esposta, che trova negli della poetica Ossi di seppia una prima grande concretizzazione espressiva, rimane più o meno stabile nella produzione successiva, pur arricchendosi e variamente sfaccettandosi nel corso del tempo. Le poesie de Le occasioni (1939) paiono scaturire da una più' precisa formulazione di poetica, che più tardi Montale riassumerà nel rapporto tra "opera-oggetto" e "occasione-spinta": "ammesso che in arte esista una bilancia tra il di fuori e il di dentro, tra l'occasione e l'opera-oggetto bisognava esprimere l'oggetto e tacere l'occasione-spinta"; una posizione questa molto simile alla teoria del "correlativo-oggettivo" formulata nel 1919 da Thomas Stearns Eliot e che rafforzava il già consistente spessore simbolico della prassi poetica montaliana. Anche dal punto di vista della visione del mondo, Le occasioni costituiscono il coerente sviluppo dei nodi centrali degli Ossi di seppia. Nelle poesie aggiunte alla seconda edizione degli Ossi (1928), da Arsenio a Delta, Montale aveva quasi toccato con mano il fallimento della speranza di salvezza affidata alle capacità epifaniche degli oggetti: giunto sul punto della rivelazione, Arsenio viene di nuovo inghiottito dall'"onda antica" della vita di sempre e s'intuisce che mai più un "ritornello di castagnette" giungerà a strapparlo dal "troppo noto delirio... d'immobilità". Privati della loro capacità rivelatrice, gli oggetti si trasformano allora in amuleti, come il "topo bianco, d'avorio" di Dora Markus: capaci ancora di significare qualcosa di ulteriore, ma solo in relazione alle memorie e al vissuto del soggetto e dunque in definitiva semplicemente consolatori, protettivi di un'identità labile e disperata proprio perché priva di qualsiasi altro mezzo di autoriconoscimento. La salvezza diviene cosi una dimensione ancor più lontana e astratta, incarnata non più in possibili e vicini fantasmi, ma nella visita di una distante natura angelica, identificata nel personaggio di Clizia. La storia d'amore con Irma Brandeis, fatta soprattutto di lunghe lontananze, viene sublimata con slancio allegorico dal poeta ed elevata a eterno conflitto a condanna del mondo e redenzione, in un quadro di religiosità laica che troverà ne La bufera la sua più compiuta espressione. Ma già nelle Occasioni, in particolare nella sezione intitolata "Mottetti" il mito salvifico della Donna Assente cui si riserva il culto dell'Attesa appare robustamente strutturato. quanto più lontana e labile è la luce della salvezza, quanto più incerto e proditorio il suo avvento - e comunque certamente non definitivo: Clizia arriva per sempre ripartire - tanto più cupo e buio risulta il mondo preda degli orrori della storia: un mondo in cui non si offrono più varchi e in cui la stessa memoria individuale, custode dell'identità, si perde dietro una "bussola impazzita" (La casa dei doganieri). ![]() ![]() ![]() Molti interpreti hanno ravvisato in Satura uno stile «diaristico», giustificato dallo stretto rapporto con l'oggi che giorno per giorno si andava dipanando. E in effetti alla forma del diario si rifanno le ultime due raccolte. Montale, Diario del '71 e del '72. (1973) e Quaderno di quattro anni (1977) che continuano la maniera di Satura e che certo non raggiungono il livello delle prime quattro pur rivelando qua e là degli spunti degni della migliore sua produzione: una produzione che risulta nel suo complesso di fondamentale importanza per la fisionomia del nostro Novecento, e che fa Eugenio Montale una delle voci poetiche più alte e risolte dell'intera letteratura italiana.
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